Ex abrupto

La prossima vita voglio avere gli occhi verdi e i capelli ricci.

Anche le spalle larghe, lo spirito adatto e la leggerezza di una domenica senza pretese.

Magari la prossima vita farò davvero la benzinaia o addirittura l’esploratrice o persino la pittrice.

Non sarei più un po’ polvere e un po’ cemento armato, ma solo un giornale con molte pagine e poche di cronaca.

Nella prossima vita voglio rinascere Cioè.

La cosa più importante sarebbe nascere su un’isola, il resto si vedrà.

Che in questo mondo squilibrato ci si finisce senza neppure essere stati interpellati e si nasce la mattina e si muore la sera, anche se sembra tutto uguale a ieri.

È per rinascere che siamo nati, ogni giorno -scrive Pablo Neruda.

Così spesso ci si rifà daccapo, ci si demolisce e ci si ricostruisce, pezzetto dopo pezzetto, perché la rinascita profuma di coraggio e di possibilità, di preludio fausto e di premessa felice.

Ci vuole tempo a ricostruire ciò che si rompe in un attimo. Basta un niente, un’impressione sbagliata, un silenzio in più, una parola in meno e crolla tutto all’improvviso, inaspettatamente, senza preamboli, d’emblée, di botto, ex abrupto.

E’ un gioco pericoloso e bello quello che la coscienza gioca con se stessa fino ad ingannarsi. Ma poi si torna a sé, come fa l’araba fenice quando diventa felice e si va avanti sottraendo ed escludendo.

E per farlo si cerca la magia, anche se non la si trova facilmente.

Quella si nasconde nei posti. Alcuni sono vicini, come la spiaggia di Fetovaia o San Galgano o la Val d’Orcia, altri lontani come quei posti del nord, fatti di pietre e mare scuro che batte sugli scogli e fa la schiuma bianca come la birra o come certi posti del sud dove il caldo sfuma i colori e l’erba è così fresca che ti viene voglia di levarti le scarpe e sentirla viva che ti cresce sotto e senti il sale dei due mari che si incontrano nell’aria che respiri e pensi a Hemingway, a Melville, a Verga e a tutte le pagine di mare e terra e scogli duri e vite lontane e quando sei lì davanti senti che le due magie si mischiano, quella delle pagine e quella dei posti e coincidono e si sommano dentro di te e lì, proprio lì, in quel preciso momento, respirando aria che sa di sabbia e di sale e calpestando l’erba verde che nasce sotto i piedi, ti demolisci e ti ricostruisci, pezzetto dopo pezzetto.

Scegliendo la trama, aggiustando il finale.

Nella prossima vita voglio essere un gatto che si acciambella su una sedia a dondolo e guarda i treni passare e sorride quando fanno ciuf ciuf.

E se invece, per una volta, rinascessi fungo velenoso?

E’ complicato

Il motto della mia casata è: come è difficile farla facile.

Nello stemma araldico si sono cinque palle, un vestito a pois e il sottotitolo in oro sul gonfalone è “cu mangia fa muddichi”, per il ramo siculo della mia famiglia.

D’altronde è molto complicato vivere con una testa complicata che fa pensieri complicati e che talvolta annega, con discreto piacere, in cose di poco conto.

Perché ho il talento innato di appassionarmi alle quisquilie, alle inezie, alle sciocchezze che più sono sciocche più io le approfondisco e le sviscero e mi ostino e mi tormento.

Complico cose semplici, ma riesco a complicare anche quel che appare di per sé già complicato.

Per qualche assurdo corollario alla legge di Murphy, a me quel che cade, cade male e si rompe, quel che cerco non si trova, quel che aspetto non arriva, piove appena esco dalla parrucchiera, smaglio i collant appena messi, la caldaia va in blocco quando sono sotto la doccia, insaponata dalla testa ai piedi.

E poi faccio sempre tanti ragionamenti, ho i miei pensieri, fissazioni, fisime, ubbie, cazzi e mazzi.

Qualcuno, ogni tanto, mi fa anche dei complimenti per questo, non rendendosi conto che una mente complessa e contorta è un po’ come avere delle grosse tette: tutti te le ammirano, ma nessuno sa quanto sia scomodo andarci in giro.

Io ci provo a semplificarmi l’esistenza, a limare e alleggerire, a lasciare che le cose vadano dove hanno deciso di andare, indipendentemente da me.

Ma ogni volta che imbocco una strada corta e diritta o prendo una scorciatoia, puntualmente mi perdo e mi ritrovo in meandri senza direzione, in grovigli senza capo né coda, in dedali senza uscita.

Come quando lo scorso anno andai a fare la Merry walk, una camminata natalizia di 7 km tutta in salita sulle colline versiliesi e nel mezzo del cammin mi ritrovai sulle Alpi Apuane, ché la diritta via era smarrita.

E pensare che avevo partecipato solo perché all’arrivo ci sarebbe stato da mangiare e da bere e soprattutto perché il ritorno sarebbe stato tutto in discesa.

La cosa si può riassumere così: sono più ingarbugliata del participio passato del verbo splendere.

Servirebbe un tutorial che mi insegnasse a semplificare. O a impastare le robe contorte nella torta di mele.

Inoltre vorrei aggiungere un altro paio di palle al mio gonfalone e cambiare il motto della mia casata in “Ma che volete da me?”

Quindi, se interessati e con requisiti, andate da mio padre e chiedete la mia mano.

My two cents

Mi sono concessa una piccola pausa, di quelle che giovano al cuore e alla mente e sono tornata con pezzetti di mondo nella valigia, parole in una lingua che mi diverte e ricordi da sommare a quelli che già ho in testa.

Nulla di che, ma andare via per qualche giorno e rifugiarmi in altri luoghi mi è sembrato comunque un buon modo di farmi un po’ di bene.

Ho percorso strade assolate e brulicanti di vita, sono passata davanti alla friggitoria di egiziani mentre sistemavano sul banco ravioli di carne fritti, poco più in là una ragazza parlava in cinese ridendo al telefonino, sull’altro marciapiede una coppia di latini ballava una rumba mentre un ragazzo indiano girottolava in monopattino con un coetaneo russo, proprio quando una ragazza araba sussurrava qualcosa ad un bambino che giocava con un peluche.

Avevo fatto solo pochi passi e sentito già tante voci: ero in Times Square e, senza saperlo, ero al centro del mondo.

New York è la città in cui ci si avvicina senza conoscersi e ci si scambiano nomi, strette di mano, confini, risate e qualche chissà.

Poi si torna e il cuore non è esattamente lo stesso.

Sfumano i suoni, i doveri e anche le ire.

Rimangono mozziconi di parole, l’entusiasmo, lo stupore e centinaia di foto nostalgiche da guardare e riguardare. L’inverno sarà lungo, ma me le farò bastare.

Ho aspettato di salire al centoduesimo piano dell’Empire proprio come fanno i bambini. Ho guardato che ora fosse almeno dieci volte, ho sperato che il sole tramontasse, che lo skyline si illuminasse e che la gente smettesse di andare e venire.

Poi, finalmente, le porte dell’ascensore si sono aperte e hanno dato vita ad uno spettacolo che mi ha mozzato il fiato.

A bocca aperta e cuore pieno ho guardato il mondo dall’alto in basso per un po’: come in una puntata di Gossip Girl ho fatto shopping sulla Fifth Avenue, mi sono seduta su una panchina di Central Park con Woody Allen, ho mangiato un croissant davanti alla vetrina di Tiffany con Audrey Hepburn, ho guidato un taxi di notte insieme a Robert De Niro, discusso con uno spacciatore del Bronx come in Carlito’s Way e mi sono arrampicata sulle scale antincendio del Greenwich Village dopo essere andata da Magnolia Bakery a comprare cupcake.

Proprio come in un film, a questo ho pensato tutto il tempo.

Quando sono entrata al MoMa avevo il biglietto in mano e il sorriso in bocca.

Mi sono emozionata con la Notte Stellata di Van Gogh, ho sognato ad occhi aperti guardando le Ninfee di Monet, ho pianto davanti agli Amanti di Magritte e mi sono interrogata di fronte alle linee geometriche del quadri di Mondrian.

Poi, per qualche ora, ho passeggiato su e giù per le rampe a spirale del Guggenheim Museum e, davanti ai quadri di Kandinsky, sapevo di essere nel posto più bello del mondo.

Proprio come in un sogno, a questo ho pensato tutto il tempo.

Con fatica ora sono tornata alla solita routine, incastrata tra una sedia ed una scrivania.

Purtroppo, qualche giorno prima di andare negli Stati Uniti, gli Stati Uniti cancellavano diritti che si ritenevano acquisiti, considerando di fatto l’aborto una forma di omicidio, ma permettendo a chiunque di uccidere con armi comprate in libera vendita.

Così, anche dalle nostre parti, si è riacceso il dibattito sulla legge 194, sulla questione dell’obiezione di coscienza e sulla libera volontà della donna e il vento che soffia non sembra annunciare nulla di buono.

Era il 2017 quando, guardando le prime puntate de “Il racconto dell’ancella” che descriveva un mondo in cui i diritti delle donne venivano negati dalla presa di potere di una cultura patriarcale e teocratica, azzardavo che di distopico in quella serie ci fosse poco e che si trattava di una profezia purtroppo realizzabile.

Ed eccoci qua.

I segnali, guai ad ignorarli; i diritti, guai a smettere di rivendicarli.

Ma questa è solo la mia opinione e, come tale, vale giusto due centesimi (di dollaro, of course!).

In palette

Imbrattare i pensieri di colori e luci e ombre è solo una delle mie tante fisime.

E nemmeno la più grave, tutto sommato.

Li accantono in una zona neutra e spoglia della mia mente finché non diventano variopinti, secondo una logica cromatica tutta personale.

Il bianco è il colore della neve, delle lenzuola stese al sole, del porro, delle strisce pedonali, della perla dentro l’ostrica, di un viaggio in Grecia, dei buoni propositi, delle cose che funzionano, degli incastri che si incastrano e del cuore pulito di Matteo.

Il nero è quello degli pneumatici, dell’aria che pesa, dei pensieri che non vorrei, dell’umore del lunedì, dei cappelli degli ebrei ortodossi, della periferia cementificata, del riso venere e del bagno senza finestra.

Il rosso mi piace sulle unghie e sulle labbra, sulle fragole d’estate e sui peperoni d’inverno. Mi ricorda la prepotenza, la confusione, i libri imbrattati, il sugo che faceva mia nonna, le cose che mancano e le cose in eccesso.

Se il mio respiro è quieto e taciturno allora è verde smeraldo, come le foglie che calmano e la musica dei Green Day che consola. Quando si fa più affannoso allora è blu pervinca, come la paura, la profondità, le coincidenze, gli imprevisti e la carrozzeria di alcune Alfa Romeo degli anni ’70.

Blu che a volte sembra nero, ma è blu.

Con il blu sta bene il giallo che è il colore sgargiante e vistoso degli evidenziatori, degli scuolabus, dei capelli delle bambole, del Portogallo, della gelosia, delle ansie di cui vorrei fare a meno, dei gomitoli di lana, del destino che arriva e di una pentola a pressione che borbotta.

Le tonalità del rosa no, non mi piacciono. Il lilla ha un colore indeciso che somiglia a lividi sbiaditi, a promesse infrante, alle foto di chiunque fatte ovunque. Il malva ha una sfumatura pallida come certi turisti del nord e il viola sta bene solo sulle melanzane e sugli abiti dei vescovi.

Ci sono i ricordi d’infanzia nelle sfumature dell’arancione. Ci sono persone e altre età, la fine della scuola, la caccia alle lucertole, il risotto con la zucca, i dormiveglia e i gigli di Mondrian. L’albicocca chiaro è il colore dei pensieri che si lasciano abbracciare, l’ambra quello delle parole che pesano, senza gravare.

Come Picasso nel suo periodo blu, io adesso sono nel mio periodo ocra.

La mia palette va da pensieri tenui e lievi come il beige ad altri scomposti e prepotenti, color ruggine. Certe durezze aspre e ruvide color testa di moro sono addolcite da pennellate di marrone chiaro, con sfumature di biscotto e caramello.

Sono violenza e dolcezza, come il Chianti d’autunno.

Ogni tanto mi fermo ad osservare questa tavolozza impazzita di colori, ignara e felice e senza capirci nulla.

Sarà per questo che ne scrivo, per mettere tutto nero su bianco.

E ora lascio la parola a Freud.

Sull’idiozia

Eppure Dostoevskij ha scritto “L’idiota” un secolo prima che Putin nascesse.

Che poi il principe Myskin, tanto idiota non era. Era solo un uomo estremamente buono, con un senso morale elevatissimo, a tratti insostenibile, affetto da crisi epilettiche.

Un tempo fui tanto malato, che allora ero proprio simile a un idiota.”

A dirla tutta, nemmeno Putin è un idiota. E’ un pazzo, al potere.

Pazzi al potere: c’è qualcosa di peggio?

Poteva essere un pazzo qualunque, ma lui no. Lui ha voluto strafare.

Un po’ come Benito Mussolini che parlando di Adolf Hitler disse: “Quell’idiota di Berlino”. Quando il bue dice cornuto all’asino.

Insomma io, che non sono Dostoevskij e non ho nemmeno il suo ottimismo, il libro lo avrei intitolato al plurale: “Gli idioti”.

Che di politici spietati e disumani ne è pieno il mondo e loro di etichette e di confini si fanno vanto e invece, per me, fanno solo fatica a capire che questo mondo non ha nessun confine e che la fame di gloria scintilla di attimi, ma insulta la coscienza per sempre.

Assisto a questa penosa barbarie, spossata da tanta idiozia perché l’ottusità genera in me un nuovo spaesamento che non avevo calcolato, una mancanza d’appigli a cui non ero preparata.

Non dopo due anni di tempo e di fiato sospeso, di stupore e di incertezza, di andrà tutto bene e di cazzi amari.

In questi giorni comunque ho capito che gli idioti sono tutti un po’ ridicoli, fateci caso.

Tipo quelli dell’Università Bicocca di Milano che prima hanno annullato un seminario su Dostoevskij per evitare ogni forma di polemica, solo perché il povero Fëdor ha la sfiga di essere russo, poi ci hanno ripensato, ma ad una a condizione: se si parla di un autore russo, si deve parlare anche di un autore ucraino. Più che par condicio è cretinismo senza confini.

O quelli della Scala di Milano e della Filarmonica di Monaco che, con il solito moralismo da salotto, hanno licenziato il direttore d’orchestra Gergiev perché è russo e perché non ha preso pubblicamente le distanze da Putin.

Oppure quelli del Comitato Paralimpico Internazionale che hanno stabilito che gli atleti disabili di Russia e Bielorussia non potranno prendere parte alle Paralimpiadi Invernali di Pechino.

Che dire poi della Federazione internazionale felina che ha vietato le gare ai gatti russi?

Ma è con la storia del Moscow mule, che ormai si chiamerà Kiev mule, che sono state raggiunte vette di idiozia inarrivabili.

Mi confermate che l’insalata russa e le montagne russe si chiamano ancora così?

La meta è partire

Il mio posto nel mondo è su un aereo, lato finestrino.

Io che trattengo il respiro, il cielo che sembra un acquerello e le nuvole che hanno la forma di un drago.

Ho con me una valigia e la curiosità ardente di Lucio, quello delle Metamorfosi di Apuleio, che in Tessaglia si spalma una pomata magica e si ritrova trasformato, per errore, in asino; un cuscino da viaggio e i dubbi inquieti di Telemaco mentre guarda il mare e scruta l’orizzonte nella speranza di vedere comparire, un giorno, il padre Ulisse; gli occhiali da sole e il bisogno avido di vagare senza meta per le strade della città come Encolpio, il protagonista del Satyricon di Petronio; le cuffie per la musica e la voglia testarda di attraversare l’oceano e perdere la strada come Cristoforo Colombo.

Dopo questo tempo sospeso da tempo, niente di meglio di un bel sogno per iniziare l’anno: decolli, paesaggi e atterraggi, curiosare e annusare e ricordare, cose da vedere, strade da percorrere e gente da osservare, chilometri di silenzio seguiti da chilometri di parole, insomma viaggiare e sentirmi a casa, oppure stare a casa sapendo di poter partire.

Certe possibilità sono lussi che mi piacerebbe avere di nuovo.

E siccome un viaggio inizia sempre con un primo passo, ho prenotato un volo per gli Stati Uniti.

L’ultima volta che sono stata a New York c’erano ancora le torri gemelle, i mondiali di calcio e Clinton che nascondeva una stagista sotto la scrivania.

Ricordo che quando sono scesa dal taxi, mi sono fermata a guardare il fumo che usciva dai tombini di Manhattan ed ho pensato di essere dentro un film. Poi ho alzato lo sguardo, c’era il sole che tramontava fra i grattacieli e ho pensato che fosse la città più bella che avessi mai visto.

E’ un regalo quello che ci siamo fatti la mia famiglia ed io, quell’anno. Un po’ di Stati Uniti, un po’ di Canada e una finestra sul mondo che a un certo punto si sente il bisogno irrefrenabile di aprire.

Abbiamo persino partecipato ad un matrimonio americano: io ero una delle dieci damigelle della sposa, tutte vestite con un’americanata di abito fucsia, con scarpe fucsia, con un fiore fucsia tra i capelli ed un trucco sobrio come quello di Moira Orfei.

Poi si torna e il cuore non è più lo stesso. Restano le foto di skyline, di parchi e di cascate da guardare con gli occhi della prima volta anche se è la millesima. Stampe da incorniciare e da riguardare ogni tanto. Un piccolo richiamo, come certi vaccini.

E’ un regalo quello che ci faremo una mia amica ed io, quest’anno. Un po’ di compleanni da festeggiare, un po’ di risate da recuperare e quella finestra sul mondo che a un certo punto si sente il bisogno irrefrenabile di riaprire.

Perché è ora di tornare a viaggiare, questo è certo. Ma è anche tempo di priorità, tipo la salute.

Nel frattempo, ripasso le basi da the cat is on the table a open the window, ma non vedo l’ora di essere seduta su una panchina di Central Park, guardarmi intorno e finalmente dire “first reaction: shock!”

Intanto vado per la mia strada che è già un bel viaggio.

Non so, dunque parlo

L’incompetenza deve pur avere un rumore.  Secondo me di vetri rotti, di freni stridenti o di nasi soffiati.

Sicuramente avrà anche un odore. Sa di melma, di pesce marcio e di stanze sempre chiuse.

La riconosco nelle facce di chi si sente portatore di verità assolute, di chi si crede depositario dello scibile umano, di chi non sa nulla, ma appena può si assegna una laurea e una buona dose di sapienza.

I pulpiti sono fatti di sé e di troppe parole.

E a me quelli che sermoneggiano con toni di solenne superiorità, se una volta mi provocavano sbadigli, adesso mi fanno venire due palle così che mi ci vuole la carriola.

Perché attorno a me, ultimamente, è tutto un pullulare di esperti di medicina, di virologia, di sanità.

L’argomento non è importante, loro in quanto esperti discettano su ogni cosa e tramutano opinioni personali in principi assodati, spacciano cretinate lette su Facebook per teorie scientifiche e laddove servirebbe silenzio e rispetto, provocano di proposito schiamazzi e crociate.

Confondono la libertà di espressione con l’espressione fuori controllo e con la scusa che in un sistema democratico ognuno è legittimato a dire ciò che vuole, dicono cose di cui non hanno conoscenza, né autorità.

Eppure la presunzione spacciata per competenza fa proseliti perché quel poco che sanno te lo vendono così farcito, confezionato e infiocchettato da fartelo sembrare credibile. Poi togli i fiocchi, apri la scatola e manca il contenuto.

Parlare di quel che si conosce, ecco cosa si dovrebbe fare.

Perché un conto è dire che una cosa piace o non piace o che è giusta o sbagliata.

Ma, ad entrare nel merito di quella cosa, dovrebbero essere solo coloro che l’hanno studiata, analizzata e approfondita, che hanno la competenza, la preparazione e l’esperienza per potersi esprimere.

Ad esempio, su un’opera di Renzo Piano, io al massimo posso avere in giudizio puramente estetico, ma sarei sciocca se mi mettessi a contestare le tecniche di sviluppo di una struttura a guscio.

Semplicemente perché non ho studiato Architettura e nulla so di scienza delle costruzioni, di fisica tecnica e di progettazione.

Eppure quando ho detto che, in tema di salute in generale e di vaccini in particolare, dovremmo affidarci alla scienza e alla ricerca e non ai ciarlatani su internet, un tizio con la laurea triennale in Viticoltura ed Enologia, con tesi sulla vinificazione in anfora, mi ha risposto con astruse teorie sulla modificazione genetica del Dna e alla fine mi ha tacciato di essere stolta e pure incosciente.

Evidentemente quel giorno aveva esagerato con il Cabernet-Sauvignon.

So di non sapere, diceva Socrate.

Cu sapi, sapi e a cu nun sapi, ‘nzignaccilla (chi sa, sa e a chi non sa, si insegna), diceva mio nonno.

Socrate e mio nonno avevano ragione, questo almeno lo so.

Quali sono le altre mie competenze?

So separare gli zampironi senza romperli, dal 1998.

Come la penso

E’ quel periodo della mia vita in cui non capisco se ho più bisogno di una granita ai gelsi rossi, di un gin tonic o di espatriare in Groenlandia.

Poi penso che forse posso aspettare ancora un po’, che questa uggia è solo colpa dell’inquietudine che mi porto negli occhi e tra i pensieri.

D’amore non parlo mai. Perché non ho bisogno di parlarne e perché amo quel che amo senza capire esattamente il perché.

E poi l’amore non è una cosa semplice come canta Tiziano Ferro. E’ sentire zone lontane del proprio corpo che tornano a casa, come scrive Franco Arminio.

Comunque, anche se giungo sull’argomento con discreto ritardo, l’idea era quella di dire la mia su una chiesa o uno stato che non riconoscono l’amore tra le persone, chiunque esse siano, e non lo rispettano, qualunque esso sia.

Sul pietismo finto che se due maschi si vogliono bene, oppure due femmine, non va bene perché sono contro natura. Invece uno a cui è rimasto solo il pensiero e il resto è sofferenza, piaghe e tubi con cui va imboccato, lavato e pisciato, quello va bene, è secondo natura.

Sul perbenismo falso per il quale, anche se durante la settimana hai tradito la moglie, frodato il fisco, rubato i soldi ad un cliente, fatto la spia ad un collega, se poi la domenica mattina ti confessi e fai la comunione hai diritto al regno dei cieli.

Ma poi ho pensato che scrivere ciò, in poche righe e dentro questo enorme blablabla virtuale, porterebbe solo a rimestare luoghi comuni, a mischiare sacro e profano, a lasciare che l’insolenza prenda spazio sulla ragione.

A parteggiare per chi invoca leggi utili a demolire pregiudizi o per chi pensa che una nuova legge contro l’omofobia non sia la soluzione, ma solo una toppa messa lì a nascondere stereotipi prefabbricati da tutti, destra e sinistra.

D’altronde a me non hanno insegnato a rispettare un gay, hanno insegnato a rispettare tutti; non mi hanno insegnato a picchiare una persona che ne ama un’altra del suo stesso sesso, mi hanno insegnato che non si picchia nessuno.

Ma soprattutto mi hanno insegnato che una famiglia non è per forza composta da madre, padre e figli, una famiglia è tutto ciò che rimane dentro quando si chiude la porta di casa. Pesce rosso compreso.

Quindi, cosa potrei dire?

Forse che bisognerebbe fare come in Danimarca dove l’empatia si insegna a scuola. Materia obbligatoria, un’ora a settimana per studenti dai sei a sedici anni.

Perché l’empatia si impara. Serve a conservarsi umani, a raccogliersi dentro l’anima di qualcun altro, ad abbattere muri di pensieri ben più alti del cemento, a non vivere nella colpa se si è felici dell’amore che si prova.

Non vi può essere nessun altro rimedio, questo penso.

Gesù comunque vi guarda quando non rispettate le libertà individuali altrui, e anche io.

Adulta e vaccinata

Sto sorridendo, ma è una smorfia.

A chi si lamenta del tempo che passa vorrei ricordare chi di tempo non ne ha più, perché l’ha finito.

A chi si lamenta dei giorni che stiamo vivendo vorrei dire che verranno tempi migliori, o peggiori. Basta che vengano.

A chi si lamenta che ci stanno rubando il tempo, vorrei rammentare che quel tempo non è nostro e un ladro non può lamentarsi di un furto.

Ma ho imparato a dire le cose con metà parole, quindi le taglio, le assottiglio, le smusso, le limo e se poi non bastano, sorrido.

Perché ormai sono adulta e anche vaccinata e quando mi guardo mi dico fortunata.

A chi parla del peso della vita vorrei presentare chi non ha le gambe per portarlo.

A chi dice che questa pandemia ci ha reso più poveri e soli, vorrei ricordare che c’è una lettera di Petrarca a Boccaccio in cui scriveva che “il 1348 ci ha resi soli e poveri e ci ha tolto cose che non si possono recuperare”.

A chi scrive che il vaccino fa più male della malattia, vorrei rispondere che anche vivere è inesorabilmente mortale.

Ma ho capito che la stupidità è un virus che si trasmette per via aerea, quindi trattengo il respiro e sorrido.

Perché ormai sono adulta e vaccinata e so che non esiste un vaccino contro chi ha la convinzione di avere sempre ragione.

Se sono adulta è perché gli sbagli, gli abbagli, le paure e le mancanze mi hanno fatta diventare grande. Un dubbio ogni tanto dovrebbe essere obbligatorio, come il richiamo di un vaccino.

Se sono vaccinata è perché anche il funerale di una persona cara, come una riunione di reduci sopravvissuti ad una guerra, serve a ricordare cosa vuol dire essere vivi. E se quella persona che non ha fatto in tempo a fare il vaccino, potesse resuscitare, ci manderebbe a fanculo tutti.

Sono talmente adulta e vaccinata che ormai ho imparato a dire le cose come stanno: il covid ha rotto le palle, ma anche quelli che non si fidano dei vaccini perché l’hanno letto sull’oroscopo, non scherzano.

E’ qui la fila per gli anelli di Saturno?

Ho una smorfia dolce sulla faccia, somiglia ad un sorriso.

Aria fritta

Anche se ho taciuto, ne ho dette di cose.

Ho trascorso gli ultimi mesi recintata in zone variopinte, dal rosso cremisi al giallo chartreuse, restando a galla come una barchetta di carta.

Ho rincorso la leggerezza dando un nome alle nuvole bianche, regalandomi giornate di vento, di tovaglie blu e di ristoranti sul mare, prendendo il volo verso l’alto, allontanandomi dall’insostenibile pesantezza delle frasi fatte di frittura d’aria un tanto al chilo.

Ho comprato un pc, un tostapane, un frullatore ad immersione, uno spremiagrumi professionale e una friggitrice ad aria per cucinare robe leggere come l’aria fritta.

Ho guardato serie tv turche in turco e israeliane in ebraico, sono entrata in room giapponesi di Clubhouse, ho fatto sogni americani e pensieri in dialetto stretto.

Ho provato affetto per l’equilibrio di Mattarella, tenerezza per i congiuntivi Di Maio, pena per l’inglese di Renzi, fastidio per l’arroganza di Salvini, rabbia per il dilettantismo di Casalino, disgusto per l’incompetenza dei negazionisti, dei complottisti, degli antivaccinisti e anche dei terrapiattisti.

Ho visto tante cose dalla finestra di casa mia, in questi mesi. Le ambulanze sfrecciare, i vicini a spasso con il cane, i podisti improvvisati, l’erba crescere tra l’asfalto, la prima ondata, la seconda ondata, la pioggia cadere a dirotto e il sole morire dentro il mare.

Ho capito che le cose che contano davvero sono quelle che si danno per scontate, che il futuro ha il suono di passi incerti e titubanti, che il presente ha il sapore della speranza e dell’attesa, che gli idioti resistono a tutto, pure alla pandemia.

Ho imparato a trattenere la tosse, a chiamare le paure per nome, a sorridere con gli occhi, a rimanere in silenzio, senza che nessuno me lo insegnasse. E che in Giappone c’è un santuario che viene demolito e ricostruito dai monaci ogni vent’anni, identico a se stesso. Un ragazzo a vent’anni va nel tempio per imparare a costruirlo e ci resta finché non ha imparato tutte le tecniche. Poi, passati i primi venti anni, quando ormai è quarantenne, lo costruisce per davvero, mettendoci tutto il tempo che occorre, cioè vent’anni. Solo quando ne ha sessanta, può insegnare a costruirlo ai giovani che vorranno imparare. Tutto il resto è aria fritta.

Io invece quando non so come fare una cosa, penso a come la farebbe Ryan Gosling al posto mio.

Perché lui lo amo dai tempi di Drive, da quel “Posso parlarti? Non ci metterò molto” che sembrava lo dicesse a me, con quel bomber tamarro color argento e l’aria da matto.

Ecco, se Ryan mi vendesse l’aria fritta, io la comprerei.