I poderi forti

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Sono nata al tempo del mangianastri, della coccoina, dei gettoni telefonici e dei pantaloni a zampa d’elefante.

Sono cresciuta con i ciucci colorati, le rotelle di liquirizia, lo zaino Invicta, la cintura El Charro e un pezzo di gesso per giocare a campana.

Sono stata giovane quando si leggeva il Cioè, si ascoltavano i Duran Duran e gli Spandau Ballet e si giocava a Risiko per conquistare i territori.

Mi ritrovo adulta in un tempo in cui mancano le idee, la voglia e la buona creanza, però adesso per conquistare un territorio basta fare tre figli.

Perché se fai il terzo figlio, lo Stato ti dà un pezzo di terra da coltivare.

Mica l’asilo nido gratis o lo sconto sul latte in polvere o una fornitura di pannolini.

No, un terreno da zappare e tre bocche da sfamare.

E per un attimo mi è sembrato di essere in uno di quei saloni sfarzosi di Downton Abbey, a bere il tè con il mignolino alzato, a flirtare con qualche conte inglese e a ridere delle battute pungenti di Lady Violet.

Parlando di feudi, di fittavoli e di maggese.

Insomma, invece di convincermi a fare il primo, qui già parlano del terzo figlio.

Di questo passo, al quarto daranno un aratro. O due caprette che fanno ciao.

E a mia nonna, che di figli ne ha avuti sette, come minimo avrebbero dovuto intestare il Regno delle due Sicilie.

Io invece figli non ne ho, però ho un nipote. A me non regalano niente? Nemmeno una batteria di pentole, una bici con cambio shimano, una rete con le doghe in legno?

Comunque, anche cinque mq di posto auto andrebbero bene.

Oppure facciamo così: tenetevi la terra e alla prossima cazzata che dite, vi ci mando io a zapparla.

(Il pressappochismo al potere. C’è forse qualcosa di peggio? )

Regina di quadri

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E poi all’improvviso ha smesso di funzionarmi il principio di responsabilità.

E’ successo una mattina, una di quelle scandite da pretese, obblighi, doveri, convenevoli, regole e chissà quante altre pastoie.

Ho guardato il calendario, deciso il giorno, ci ho fatto un segno e ho sorriso.

Perché sapevo che una volta arrivata sulla scalinata di Montmartre sarebbe stato tutto assolutamente perfetto, come dev’essere, preciso lì.

C’ero io, i tetti di Parigi, la bocca aperta per lo stupore e il cuore pieno di meraviglia.

Un paesaggio da guardare, senza sapere dove inizio io e finisce lui.

E da riguardare, ogni volta che mi sarebbe mancata la bellezza o non avrei saputo dove trovarla.

In quei giorni parigini sono accadute cose che non ho capito, ma mi sono detta che non è necessario che io capisca proprio tutto.

Come quando al Louvre, per un’inestricabile congiuntura di eventi, la porta si è chiusa ed io sono rimasta bloccata dentro.

Così ho guardato le pareti piene di oli e affreschi e acquerelli e paesaggi e nature morte ed ho sperato che quella porta la chiudessero con lucchetto, chiavistello e doppia mandata.

Ho visto lo sguardo inviolabile di Monna Lisa, i contorni sfumati della Vergine delle rocce, le maestose allegorie delle Nozze di Cana, il marmo immortale di Amore e Psiche, la ali possenti e coraggiose della Nike di Samotracia, la bellezza mutilata della Venere di Milo, l’eleganza e la luminosità della mani della Merlettaia.

Ho visto turisti incantati da volti che sembravano vivi, ho cercato un po’ di me nelle ombre di un dipinto, ho ascoltato quelli bravi parlare di cose che non capivo, che la pennellata è così e che la prospettiva è colà.

Ma l’arte, forse, non serve capirla. Io la guardo, me la sento addosso e mi vien voglia di portarmela via.

Il Louvre adesso è là, ma un po’ è anche dentro di me.

Il ritorno è stato ritmato dalle solite pretese, obblighi, doveri, convenevoli e regole che presto torneranno ad annoiarmi.

Ma intanto.

Ecco perché questo non è un post. E’ solo un promemoria.

Per ricordarmi che una porta è chiusa davvero se è aperta a qualcos’altro.

Che la vita è quella cosa che succede quando si è tra i corridoi e i soffitti alti di un museo in cerca del sangue che vi circola dentro, e che il resto è solo una bellissima cornice.

Che la cornice serve solo a chi non ha il quadro.