Che me ne faccio di tutti questi ricordi?
Non si sa mai.
Sarebbe bello diventassero cuscini dove riposare quando sono stanca o piccoli sassi da farci un muro dove appoggiarmi a prendere il sole ad occhi chiusi.
Intanto, cerco di averne cura perché non posso viverli di nuovo.
Alcuni ricordi si lasciano ricordare a modo loro.
Prima si liquefanno, poi si mescolano e ogni tanto riaffiorano come fotografie un po’ sfocate, mosse, in bianco e nero e con il sapore cipriato della nostalgia.
Così, se chiudo gli occhi, ricordo i pomeriggi d’infanzia fra i gomitoli e i ferri di nonna Pina che paziente mi insegnava a fare la maglia, l’odore del vino cotto e della marmellata di mele cotogne di nonna Carmela, le pagelle di quando avevo un grembiule bianco e un fiocco blu, i maglioni con disegni a losanghe, vagamente scozzesi, le chiacchiere fra i banchi di scuola immaginando scene da film che non sarebbero mai arrivate, le mille monete in mano per far risuonare la musica di un jukebox e nient’altro in tasca, a parte le voglie.
E mi scappa un mezzo sorriso, ma solo mezzo.
Come oggi, quando nascosta tra gli scaffali di un supermercato, ho aperto le bottiglie di ammorbidente per sentirne il profumo.
Sapevano di mughetto, le mie nonne.
E se potessi chiedere un tempo chiederei quello in cui guardavo incantata mia nonna Carmela fare il sapone.
La rivorrei indietro, per qualche ora.
E me ne starei lì ad osservare mentre rimescola acqua, olio e scarti di grasso dentro un grosso pentolone, con vecchio manico di scopa.
Al posto della soda caustica mia nonna usava la cenere e, a fuoco lento, lasciava cuocere quella cremosa purea per almeno tre ore.
Poi la filtrava con un canovaccio pulito e la lasciava nuovamente bollire finché non si formava uno strato biancastro e morbido.
Quello era il sapone.
Lo profumava con oli essenziali alla lavanda o con scorza di arancia, lo faceva riposare tutta la notte e il giorno dopo lo tagliava e lo lasciava stagionare dentro un grosso cesto di vimini.
Qualche pezzo poi lo regalava alle vicine di casa e il resto lo usava per smacchiare i panni, per lavare i pavimenti, per sbiancare gli oggetti anneriti.
Io invece ne scioglievo qualche scaglia in una bacinella piena d’acqua e facevo le bolle di sapone.
Fragilissime, delicate e trasparenti, però dentro contenevano arcobaleni.
Le facevo volteggiare nell’aria e le dividevo in due per non farle scoppiare.
Le bolle fatte con il sapone di mia nonna mi hanno insegnato che le cose belle finiscono.
Si dissolvono e diventano ricordi che poi, ogni tanto, ritornano e si fanno voce, occhi, odori e stagioni.
E riaffiorano prepotenti, come la schiuma bianca di quel sapone fatto in casa, in un pomeriggio di settembre.
Certi momenti nascono già ricordi.
O forse, in fondo, per avere dei bei ricordi da ricordare bisogna solo farne di nuovi, ogni tanto.