Ambaradan

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Se c’è una cosa che in Italia funziona è il disordine“.

Così era ai tempi di Leo Longanesi, così è adesso.

E noi italiani siamo capaci di fare confusione anche sull’origine del termine che vuol dire, appunto, confusione.

Ambaradan, nel linguaggio comune italiano, è un insieme caotico di elementi, un grande disordine, un’allegra baraonda.

E’ un termine ordinariamente scherzoso e simpatico. Storicamente, invece, non lo è nemmeno un po’.

La parola deriva, per crasi, dalla confusa e cruenta battaglia di Amba Aradam in Etiopia fra italiani e abissini nel 1936. Una delle pagine più vergognose e sanguinose della guerra d’Africa, una battaglia vinta dalle truppe italiane in una situazione disordinata e caotica, usando gas venefici, granate all’arsina e altre terribili armi chimiche. Nessuno, alla fine, era più in grado di capire contro chi stava combattendo.

Nell’altopiano di Amba Aradam gli italiani hanno sì commesso un gran pasticcio, ma l’ambaradan rimane pur sempre un massacro.

Ambaradan è la metafora calzante per descrivere l’attuale situazione italiana.

Grande è il disordine sotto il nostro cielo: instabilità politica, crisi economica, decadenza di modelli, idee, valori. Leggi incerte e contraddittorie, politici corrotti che parlano di etica e di moralità, uomini delle istituzioni che sostengono che “bisogna convivere con la mafia” e che “con la cultura non si mangia”, ministri insultati per il colore della pelle, governi senza maggioranza, disprezzo per le minoranze. Preti con il prurito sotto la tunica, capitani che abbandonano la nave mentre affonda, gente che fatica a stare a galla in un mare di tasse e disoccupazione, famiglie che non riescono più a mettere insieme il pranzo con la cena. Femminicidi, omicidi, suicidi, neologismi che convivono tristemente con vecchie parole cacofoniche.

Il solito caos all’italiana, giorni di ordinaria follia, poche idee e parecchio confuse.

Una consolidata prassi di cui abbiamo smesso  perfino di indignarci, di vergognarci, di scandalizzarci.

L’Italia non è un paese immobile. L’Italia sta affondando, come il Titanic, come la Concordia.  Stesso destino, stesso equipaggio, anche i comandanti sembrano simili.

Siamo ai titoli di coda, è solo questione di tempo e succederà un ambaradan.

Solo noi italiani usiamo questo termine con sarcasmo e irriverente ironia. Come se la storia non ci avesse insegnato nulla. Come se un giapponese scherzasse su Pearl Harbor o un tedesco su Auschwitz.

Forse dovremmo solo approfittare di questo caotico disordine per cominciare a mettere un po’ di ordine. A partire dall’ordine delle idee, che deve procedere secondo l’ordine delle cose.

Serendipity

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Trovare qualcosa mentre se ne sta cercando un’altra.

Serendipity è la sensazione che si prova quando si scopre una cosa inaspettata, non prevista. Un “fortunato incidente”, quando meno te l’aspetti, dove meno te l’aspetti. L’imprevisto che scombina tutti i piani, il casuale e l’inatteso che crea stupore e meraviglia.

Come Cristoforo Colombo che, cercando le Indie, per caso scoprì l’America o come Fleming che, grazie ad una piastra batterica lasciata incustodita, casualmente scoprì la penicillina.

Come i “Tre principi di Serendippo”, la favola persiana dove i protagonisti intraprendono un viaggio avventuroso, fatto di imprevisti, casi fortuiti e geniali intuizioni. Abbandonandosi alla capacità di osservare e di ascoltare, i tre principi fanno scoperte straordinarie e trovano tesori che non stavano cercando.

La serendipità, insomma, quando accade è una bella cosa. Affinchè accada però, bisogna essere aperti alle sorprese,  all’inedito, all’inatteso, far sì che un caso non rimanga solo un caso. “La fortuna favorisce le menti preparate” diceva Pasteur.

Diventa così la capacità di compiere delle deviazioni anche quando si è certi di essere sulla strada giusta, di assecondare intuizioni e percezioni mentre si è indaffarati a cercare altro.

Gli scaffali di una biblioteca o di una libreria sono luoghi imprevedibilmente serendipitosi.

Accade di entrare in libreria per cercare un libro di cui si conosce titolo, autore, trama e di trovarne invece un altro di cui non si sospettava l’esistenza, ma che si scopre essere estremamente importante. Importante per noi.

Capita anche di andarci per comprare un libro da regalare a Natale e trovarci l’amore. Così è successo a Meryl Streep e Robert De Niro in “Innamorarsi”. Erano in una libreria, lei stava comprando un libro fotografico da regalare al marito, lui un libro sul giardinaggio da regalare alla moglie. E’ bastato un errore fortuito, lo scambio dei pacchetti dei libri, per conoscersi, guardarsi e innamorarsi perdutamente l’uno dell’altra.

Anche Julia Roberts e Hugh Grant, senza una libreria, non si sarebbero mai incontrati ed innamorati. Galeotta fu quella londinese di Notting Hill. La libreria esiste veramente e anche se il libraio non ha lo stesso fascino del protagonista della commedia, sbirciando fra scaffali e corridoi si possono scoprire cose straordinarie, migliori di quelle che si stavano cercando.

Un po’ come succede navigando nelle disordinate acque del mondo virtuale. “Il più grande motore di serendipità nella storia della cultura“, così è stato definito Internet.

In questo mare di informazioni in cui è facile naufragare, in questo flusso continuo di notizie e di stimoli in cui è semplice perdersi, basta seguire il filo dell’intuizione e della curiosità per scoprire cose nuove, più interessanti, inaspettate perchè non cercate. E da questo intreccio di dati, notizie e collegamenti uscirne arricchiti. Poco importa se non si è arrivati a destinazione, durante il viaggio ci si è imbattuti in preziose informazioni, imprevedibili scoperte di cui fare tesoro e da custodire gelosamente.

Dunque, se ti sei imbattuto in questo post non è stato per caso. Nella vita ci sono cose che cerchi ed altre che, serendipitosamente, ti vengono a cercare.

Un minuto di silenzio

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Ho osservato un minuto di silenzio.

Per chi comincia e si ferma a metà dell’opera, per chi lascia tutto al fato, per chi prende la vita troppo sul serio e per chi la vive con troppa leggerezza, per chi perde tempo dietro al tempo perduto, per chi guarda le persone senza mai vederle, per chi erra e diabolicamente persevera.

Per tutti gli uomini con le sopracciglia ad ali di gabbiano, per tutte le donne che mettono al cane il cappottino di Burberry e i fiocchetti rosa in testa, per chi fa le foto con l’iPad sembrando un contorsionista, per chi in estate mette l’anguria al fresco sulla battigia e per chi applaude al pilota dopo l’atterraggio. Per chi ha finito le mollette per stendere i veli pietosi, per chi pensa che Sky sia un satellite della terra e lo scisma un gruppo di api.

Per tutte le parole sprecate dette alle persone sbagliate, per quelle non dette alle persone giuste, per chi non ha mai letto un libro e per chi invece ne ha letti tanti ma non è servito a nulla. Per tutti gli onorevoli senza onore, per i fedeli senza fede, per chi parla troppo e per chi tace da una vita intera. Per chi non offre mai una seconda possibilità, per chi non chiede scusa ma le scuse le pretende e per chi rimanda all’infinito per paura del domani.

Per chi inizia le diete il lunedi e le finisce il venerdi, per chi si iscrive in palestra a settembre e non arriva neanche a dicembre, per chi vive di sensi di colpa perchè alle tentazioni non si resiste, per chi abbandona le partite a metà perchè ha paura di perdere. Per chi si lascia ingannare dalle apparenze, per chi crede che la speranza sia l’ultima a morire, che l’erba del vicino sia sempre più verde e che gode di più chi si accontenta.

Per le margherite sfogliate ogni giorno, per le mimose sterminate una volta l’anno, per tutte quelle rose che non fioriranno mai, per chi aspetta san Valentino per regalare un fiore e per chi appassisce come un fiore reciso. Per chi distrugge come la gramigna, per chi si piange addosso come il salice e per chi sta fuori come un vaso di gerani.

Per chi i meriti non se li è meritati, per chi promette ma non mantiene, per chi calpesta la dignità e per chi pretende di avere sempre ragione. Per chi del razzismo ha fatto la propria bandiera, per chi non ha bandiere, per chi vive di clichè e per chi nel pregiudizio ci è caduto e non si è più rialzato.

Per chi scrive xkè al posto di perchè, per chi pensa che l’auto del papa sia la bat-mobile e che il cappio sia espiatorio, per chi non distingue un frustrato da un frustato, per chi scrive per l’omeno, per chi attende sulla sogliola della porta e per chi soffre di patè d’animo.

Un minuto di silenzio per i restanti cinquantanove che sprechiamo per cose inutili, per litigare per cose futili, per tenere insieme cose fragili.

Ho osservato un minuto di silenzio. E’ stato assordante.

Sulla via di Damasco

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Non sempre bisogna rinsavire per ricredersi e cambiare idea. A volte basta solo essere folgorati da qualcosa o da qualcuno.

Come Paolo sulla via di Damasco.

Così mi capita spesso di cambiare idea su cose, persone, gusti, sentimenti, abitudini. Fatico ad essere coerente. E poi la coerenza, a volte, è segno di stupidità.

Dopo anni di o tutto bianco o tutto nero ho scoperto la bellezza e l’importanza delle sfumature. E quando mi capita di cambiare idea lo faccio senza rimorsi.

Ho cambiato idea sull’amicizia. Non è vero che è un dono, è una conquista. E’ qualcosa da coltivare tutti i giorni. E non è vero che le amicizie più vere e autentiche sono quelle di una vita, ho trovato il seme dell’amicizia in persone conosciute da poco. Non è vero che l’amicizia è esserci, l’amicizia è partecipazione, mettere in comune. Fidarsi ed affidarsi.

Ho cambiato idea su Twitter. Da sempre scettica e refrattaria all’uso dei social network ho capito che mi stavo precludendo un mondo. Un mondo fatto di condivisione, di comunicazione, di conoscenza, un mondo virtuale popolato da gente reale e, nella maggior parte dei casi, interessante. Un luogo dove, se vissuto in maniera consapevole, è possibile imparare qualcosa, ogni giorno.

Ho cambiato idea sulle stagioni. Delle quattro, un tempo amavo l’estate. Ora è la primavera la mia preferita. Sarà per l’aria ricca di profumi, per l’esplosione di colori, per le giornate che si allungano. La primavera è il preludio a quello che verrà, il risveglio dopo un lungo torpore. Ci si libera dai vestiti pesanti, i germogli diventano frutti, soffiano i venti di cambiamento. Ogni cosa in primavera appare più bella.

Ho cambiato idea sul Papa. E non parlo di Francesco, per il quale ho provato un amore incondizionato sin dal primo istante. Mi riferisco a Benedetto XVI che, al contrario, non ha mai suscitato in me grandi simpatie. L’ho vissuto come un Papa poco carismatico, incapace di comunicare e di farsi amare, troppo teologo, spesso severo. Ho cambiato idea su di lui lo stesso giorno in cui si è dimesso. Un gesto così eclatante, coraggioso e rivoluzionario mi ha permesso di guardarlo con occhi nuovi. E di stimarlo, di rispettarlo e, soprattutto, di non giudicarlo. Ho scorto in lui tutta la fragilità dell’uomo, il riconoscimento onesto di inadaguatezza, la necessità di uscire di scena per dare spazio al rinnovamento di una Chiesa sempre più simile a una scialuppa che imbarca acqua da tutte le parti.

Recentemente, ho cambiato idea su Obama. Mi ha profondamente deluso scoprire che non è l’uomo illuminato che pensavo che fosse, il punto di rottura con un passato di guerrafondai, il nuovo che avanza. Mi sono chiesta come può un Nobel per la pace pensare di fare una guerra.

Una volta in Siria, sulla via di Damasco, si veniva fulminati e, cadendo da cavallo, si cambiava idea. Ora, su quella stessa via si viene bombardati.

P.S. Solo su due tre cose non ho ancora cambiato idea: sull’importanza della lettura, sull’inutilità del ponte sullo stretto, sul diffidare di chi non cambia mai idea.

Perchè “niente è più pericoloso di un’idea, quando questa idea è l’unica che si ha” (Emile Chartier)

Come un equilibrista

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“C’è una misura in ogni cosa, tutto sta nel capirlo” sosteneva Pindaro.

Fosse facile, aggiungo io.

Che poi, a pensarci bene, quello di Pindaro è lo stesso concetto espresso da Orazio.

“Est modus in rebus” egli affermava. C’è una giusta misura nelle cose.

Bisognerebbe stare, cioè, in una posizione intermedia tra il massimo e il minimo, accontentarsi del giusto. Nè tanto, nè poco, q.b., quanto basta.

Tutti a dirci che nella vita ci vuole equilibrio, saggezza, via di mezzo, moderazione. Nessuno però che abbia mai provato a spiegare come si fa, a trovare l’equilibrio nelle cose.

Eterna dialettica quella fra testa e cuore, istinto e ragione. E quando la bilancia pende dalla parte sbagliata, che fatica riportarla in bilico!

Come un equilibrista, bisogna camminare su un filo immaginario, con le braccia aperte e avanzare concentrati avendo come fulcro il pulsare del cuore.

Spesso non c’è nè destra nè sinistra, non ci sono incroci. Si può solo andare avanti o tornare indietro.

Compiere delle scelte.

Mantenere l’equilibrio, dunque è tutta una questione di scelte. Fra ragione e sentimento, tra neuroni ed emozioni, fra essere e avere,  fra pensieri della mente e desideri del cuore. Ed ogni scelta è come un salto: ti spaventa, lo rimandi, ma se ti butti è libertà.

Capita di oscillare, di vacillare, di cadere giù o di sbagliare strada e, ogni volta che questo succede, si deve ricominciare il percorso dall’inizio. Un po’ come nel gioco dell’oca.

Per trovare la via d’uscita serve un filo (Arianna docet!). Allo stesso modo per ottenere equilibrio bisogna (ri)trovare il bandolo della matassa e cercare di far andare cor et mens nella stessa direzione. Il cuore dice cosa fare e la testa il modo migliore di farla.

Perchè l’equilibrio perfetto non esiste, così come non esiste la sensibilità della ragione e nemmeno la razionalità del cuore. Ossimori, sono tutti ossimori.

Nel circo della vita ognuno recita la propria parte: ci sono i domatori, gli acrobati, i giocolieri, i clown, i nani e i giganti.

E ci sono anche i funamboli.

Sono coloro che ricercano l’equilibrio non per essere felici ma, per imparare a camminare, rischiando di cadere tante volte quanti sono i passi da fare.

C’è una giusta misura nelle cose. Per trovarla, dunque, si deve perdere l’equilibrio per un attimo.

Sliding doors

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Un bivio, uno snodo, porte che si chiudono, altre che si aprono, treni mancati per un soffio, occasioni perdute.

Sliding doors.

Guardi nella direzione sbagliata oppure è il destino che cambia rotta e ti ritrovi a pensare “cosa sarebbe successo se fosse andata diversamente?”.

E allora inserisci il rewind, torni al punto di partenza e, mentalmente, ripercorri la storia, cambiandone il finale.

Ucronìa, si chiama così. E’ la ricostruzione della storia o di eventi del passato sulla base di ciò che sarebbe potuto accadere o di fatti ipotetici e fittizi invece dei fatti realmente accaduti.

Se avessi accettato quell’ invito a cena, se non fossi andata in quel posto, se avessi comprato quella cosa, se avessi scelto bianco anzichè nero, se avessi preso l’iniziativa, se non l’avessi preso, se avessi insistito, se fossi rimasta, se me ne fossi andata.

Insomma, chissà come sarebbe andata a finire se quel pezzo di puzzle si fosse incastrato diversamente.

Ad esempio, cosa sarebbe successo se Beatrice non avesse fatto tanto la preziosa? Il povero Dante, probabilmente, non avrebbe sofferto le pene dell’inferno, non si sarebbe smarrito nella selva oscura e non avrebbe scritto la Divina Commedia.

E senza la Divina Commedia io, oggi, sarei una grande criminologa. Invece, visto che i miei genitori insistevano tanto perchè facessi la professoressa, ho studiato Lettere e se studi Lettere, alla fine, vuoi non scrivere una tesi di laurea sulla Divina Commedia? E’ la morte sua! A me, ad esempio, è toccato il 32° Canto del Purgatorio.

E cosa sarebbe successo, se quell’ovulo e quello spermatozoo invece di unirsi per sempre si fossero ignorati? Praticamente non sarebbe nato Matteo, io non sarei zia di uno splendido marmocchio che, storpiando il mio nome, mi chiama “zia Lotè” e che da due anni e mezzo riempie le mie giornate, dando loro un senso.

E cosa sarebbe successo se quel giorno Cristoforo Colombo non si fosse perso? Non avremmo importato dall’America le patate, le zucchine e nemmeno i pomodori per fare u strattu, non saremmo invasi da iPhone, iPod, iPad, non saremmo obbligati a mangiare le prugne della California per digerire i panini del Mc Donald’s e non saremmo costretti a vedere certe americanate al cinema.

Ricapitolando: se Colombo non avesse smarrito la strada, oggi saremmo circondati da ristoranti indiani, non esisterebbe la cellulite e Tom Cruise, senza effetti speciali, si sarebbe già sfracellato contro la facciata dell’Empire State Building; se non ci fosse Matteo non farei la pendolare in aereo su e giù per l’Italia e di conseguenza l’Alitalia continuerebbe ad essere una bad company; se Dante e Beatrice, invece di fare i bischeri e guardarsi platonicamente negli occhi  avessero “quagliato”, la mia tesi di laurea, invece che sulla Divina Commedia, sarebbe stata sulla fenomenologia di CSI.

Ed io, invece di essere qui a scrivere questo post, sarei nello studio di Porta a Porta a disquisire con la mia collega (la dott.ssa Bruzzone) davanti al plastico della villetta di Avetrana.

La vita è tutta una questione di sliding doors!

Panta rei

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Niente è immobile, ogni cosa cambia e si trasforma. Continuamente.

Panta rei è appunto la mia filosofia di vita.

La celebre espressione è del filosofo greco Eraclito, tradotta comunemente in “tutto scorre”.

Eraclito sosteneva che “non si può discendere due volte nel medesimo fiume e non si può toccare due volte una sostanza mortale nel medesimo stato ma, a causa dell’impetuosità e della velocità del mutamento, essa si disperde e si raccoglie, viene e va”.

Ogni istante della nostra vita non è mai uguale a se stesso, tutto cambia perchè tutto è sottoposto alla legge inesorabile del tempo.

Che lo si voglia o no, non si potrà mai fare la stessa esperienza per due volte e con le medesime condizioni, perchè da un istante all’altro, da un tempo all’altro, non siamo più gli stessi.

Anche io, quando avrò finito di scrivere questo post, non sarò più quella che ero un momento fa.

E’ difficile percepire questo cambiamento, ma dentro e fuori di me, c’è sempre qualcosa che cambia, così come il fiume continua il suo corso con acque sempre nuove.

Sono talmente affascinata da questa teoria del perpetuo fluire delle cose che ho deciso di farne un tatuaggio, un segno indelebile sulla mia pelle, un monito che nella vita tutto scorre, tutto passa.

Al disegno ho aggiunto anche una libellula: immagine di leggiadria ma anche simbolo di maturità, di forza, di coraggio. Rappresenta l’idea del cambiamento, il passaggio da un’età di spensieratezza, all’equilibrio e alla consapevolezza della vita adulta.

Senza il mutamento non ci sarebbe il divenire e il mutare delle cose è inesorabile ed inevitabile.

Niente sarà uguale a prima ma, nel frattempo, farò di tutto per emozionarmi, appassionarmi, rendermi complice degli infiniti punto e a capo di cui è costellata la mia vita.

Che ogni cosa dunque faccia il suo corso. πάντα ῥεῖ