Sicilitudine

ImmagineNon si smette mai di essere siciliani.

Perchè essere siciliani non è solo un dato anagrafico, è prima di tutto una questione di identità.

Sicilitudine è un termine che amo.

Coniato da Leonardo Sciascia, rende bene l’idea di ciò che voglio dire: “La sicilitudine è l’insieme delle consuetudini, della mentalità e degli atteggiamenti tradizionalmente attribuiti ai siciliani“.

Sicilitudine è quel senso di appartenenza alla terra e alla cultura che ci rende cosi uguali, noi siciliani nel mondo!

Terra di contrasti, la Sicilia.

Isola dura e severa, ma anche ospitale ed accogliente.

Luogo di luce e di sole, ma anche di ombre e buchi neri.

Patria di sorrisi, ma anche di tragedie.

Crogiolo di storia e memoria, ma anche di miti e falsi miti.

Culla di poesia e letteratura, ma anche di coppole e lupare.

E poi ci sono quei preconcetti ancora così difficili da sradicare, quei giudizi e pregiudizi che fanno male, che ti feriscono nell’orgoglio.

Peggio ancora se alimentati da chi, in Sicilia, non c’è mai stato.

Non sembri proprio siciliana“. Questa frase mi ha fatto incazzare, più di una volta.

Poi ci ho riflettutto ed ho capito che queste parole fanno più male a chi le pronuncia, perchè, per quanto mi riguarda, essere siciliana non è una colpa.

E’ un privilegio, è un valore aggiunto.

E lo dico con vanto (io, che in Sicilia nemmeno ci sono nata!).

Basta con i soliti luoghi comuni!

Che il mafioso è mafioso solo perchè siciliano, che farsi gli affari propri è sinonimo di omertà, che essere siciliani vuol dire essere terroni e gelosi, che diffidare della modernità significa essere arretrati.

Gli uomini, i mezzi uomini, gli ominicchi, i piglianculo e i quaquaraquà non ci sono solo in Sicilia. Ne è pieno il mondo.

Sono fiera di essere siciliana perchè Archimede, Empedocle, Bellini, Verga, Pirandello, Quasimodo, Sciascia, Guttuso, Impastato, Falcone, Borsellino erano siciliani.

Alcuni di loro sono stati siciliani erranti.

E lo sono anche io, errante per scelta e non per condanna.

Io, Royal Baby nata con il forcipe

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Per fortuna è nato.
Perché non se ne poteva più. Mi riferisco al Royal Baby, naturalmente.

Fra ecografie in mondovisione, dilatazione del collo dell’utero in diretta e “push, Kate, push” a reti unificate è come se avessimo partorito un po tutti.

Mica come ai miei tempi quando l’ecografia, l’amniocentesi, l’epidurale neanche esistevano.

Mia mamma, ad esempio, racconta di essersi resa conto di essere incinta di me medesima solo agli ultimi mesi di gravidanza.

Era ingrassata, non aveva il ciclo da mesi, ma non si era posta alcun problema…..incosciente!

Appresa finalmente la lieta novella, tutto il parentado siciliano con le valigie di cartone legate con lo spago e piene di corredino per me, ma anche di caciocavallo, sausizza e ulive scacciate, partì dalla Sicilia alla volta del lontano Piemonte, dove i miei genitori lavoravano e avevano deciso di mettermi al mondo.

Nonna Carmela, nonna Pina insieme a mio nonno Paolo, arrivarono in quel di Fossano ,carichi comu li scecchi, per dare una mano a mia mamma durante gli ultimi giorni prima del parto.

E  finalmente il sette luglio qualcuno decise che era arrivato il mio momento: “Signora, deve spingere- diceva l’ostetrica a mia mamma- spinga, spinga più forte”.

Ma nulla, nonostante gli sforzi e le atroci sofferenze,  nun ne volevu sapiri di nasciri.

Fu così che il medico di turno decise che se non volevo nascere con le buone, mi avrebbe fatto nascere lui con le cattive: dopo aver inforcato un bel forcipe e stretto le pinze sulle mie tempie, mi tirò fuori dalla mia tana come si fa con le teste dei vavaluci dai loro gusci.

Visto il brutale trattamento che mi avevano riservato non ero certo un granchè: maltrattata, con una testa allungata, piena di capelli neri e con dei vistosi segni lasciati dalle ventose vicino alle tempie.

Meno male che in quella stanza di ospedale c’era anche mia nonna!

Da subito si rese conto della mia sofferenza e decise di prendere in mano la situazione….letteralmente “in mano”!

A mu niputi ci pensu io“- disse infatti ai medici e agli infermieri presenti -“ a picciridda nasciu ca testa a forma di milinciana e ora ci l’ha sistiemu io che manu mie”.

E così con dolcezza e tanta pazienza cominciò a modellarmi la scatola cranica come se fosse una pallina di plastilina, cercando di dare alla mia testa una forma decente, per lo meno rotondeggiante.

Come era fiera mia nonna di questa sua piccola magia, raccontava quell’episodio sempre a tutti e ci teneva a sottolineare che se ho la testa che ho, il merito era tutto suo!

Anche il giorno della mia laurea, orgogliosa come solo una nonna può essere orgogliosa, davanti ad un’aula universitaria gremita di studenti e professori si alzò in piedi e tutta fiera esclamò: “Se mo niputi è accussi ‘ntelliggente è soprattutto grazie a mia. Infatti a  testa cià fici io, che manu mie!”

Si sa, ogni scarrafone è bello ( e intelligente) a nonna soja….

Voli pindarici

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Ho costretto i miei pensieri a compiere arditi voli pindarici.

Tutto è cominciato dalla parola “compleanno” e, chissà come, mi sono ritrovata a ragionare sul concetto di “abitudine”.

Nel mezzo, riflessioni fra il serio ed il faceto.

Pensieri in libertà, che si rincorrono l’un l’altro senza un apparente filo logico.

Brainstorming casalingo, colpa di un’afosa domenica di luglio.

Odio i compleanni.

E man mano che le candeline da spegnere aumentano, li odio sempre di più.

Non c’entra nulla il tempo che passa, non sarei quella che sono senza gli anni che ho vissuto.

E’ proprio l’idea di dedicare un giorno dell’anno al proprio genetliaco che trovo bizzarra.

Mi ha sempre messo tristezza pensare alla torta, alla festa, agli invitati. Ricevere auguri per tutto il giorno, aprire regali, sforzarmi di sorridere e sembrare contenta di avere un anno in più.

Insomma, festeggiare il compleanno, per me, è un ossimoro!

 Un’altra cosa che non sopporto sono gli ospedali.

Quell’odore di alcool e di malattia, quelle stanze asettiche, la sofferenza che vi si respira.

Gli ospedali rappresentano in pieno il senso di precarietà della vita.

La caducità del fisico e della mente.

 Non potrei vivere lontano dal mare. Forse in una vita precedente devo essere stata una cozza attaccata ad uno scoglio, perché niente più del mare, dell’acqua, della sabbia, riesce a darmi tanta serenità.

Mi piace quando è placido e quando è burrascoso. Mi piace al tramonto. Mi piace il mare d’inverno.

Lo ascolto, lo osservo, medito e cerco risposte. Ho il mare dentro.

 Da grande avrei voluto fare la criminologa. Studiare i segreti di un crimine, approfondire gli aspetti antropologici e psicologici dell’uomo che commette un reato, capirne il movente e lo stato emozionale. La mente umana mi ha sempre affascinato, investigare sulla mente criminale ancora di più.

Avendo poi fatto tutt’altro lavoro, ripiego con le serie televisive incentrate sull’argomento, CSI, Criminal Minds, NCIS . E mi calo nel ruolo.

 Come me, anche mio fratello ha un nome spagnolo. Si chiama Pablo.

Non si potrebbe chiamare diversamente, ha proprio la faccia da Pablo.

Eclettico come Pablo Picasso, rivoluzionario come Pablo Escobar, crepuscolare come Pablo Neruda.

Questi sono i versi di Neruda che più preferisco. Forse non sono suoi, ma di una certa Martha Medeiros. Poco importa, sono comunque bellissimi e parlano dell’abitudine:

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non
rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.
[……………]
Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all’errore e ai sentimenti.

[……………]
Insomma, tutto è cominciato dal compleanno e, attraverso una serie di voli pindarici, ho planato sull’abitudine.

Per rompere il ghiacchio

Scrivere il primo post di un blog è un po’ come indugiare a letto le domeniche di inverno.

Altri cinque minuti e poi mi alzo, lo giuro.

Altri cinque minuti e poi lo scrivo, promesso.

Insomma, una serie infinita di ultime sigarette, alla Zeno Cosini.

Ma, anche se fa un po’ paura, è arrivato il momento di rompere il ghiaccio.

Mi sento come quelle diciottenni, emozionate e un po’ imbranate, che partecipano al ballo delle debuttanti per sancire ufficialmente il loro ingresso in società.

Eppure mi sono esposta tante volte e, quante volte mi sono sottoposta al giudizio altrui!

Quindi diamo inizio a questa nuova avventura…

Non so dove mi porterà, forse farò solo dei giri immensi e tornerò al punto di partenza o forse scoprirò nuovi mondi.

Ma com’è che si dice? Non è importante la meta, la parte migliore è il viaggio.

Esatto, dunque partiamo.

Dunque scriviamo e pubblichiamo questo post.

E poi, che sarà mai, è solo un post.

Hello world!

La lettura, la scrittura ed io andiamo a braccetto da sempre.

Leggo perchè è un piacere. Perchè non mi costa niente. E leggo di tutto, anche i bugiardini dei medicinali.

Scrivo per dar voce a tutti i pensieri silenziosi che affollano la mia mente.

Prendendo in prestito le parole di Andrea Camilleri:

“Scrivo perchè non so fare altro.

Scrivo perchè dopo posso dedicare i libri ai miei nipoti.

Scrivo perchè così mi ricordo di tutte le persone che ho amato.

Scrivo perchè mi piace raccontarmi storie.

Scrivo perchè mi piace raccontare storie.

Scrivo per restituire qualcosa di tutto quello che ho letto”.

Ecco perchè ho deciso di creare questo blog: per scrivere.  Per il semplice ed inevitabile bisogno di scrivere.

Per condividere i miei pensieri quotidiani  con voi. E per leggere i vostri commenti.

Che l’avventura, dunque, abbia inizio!