Di facili costumi

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Ci vorrebbe uno come Hemingway.

Uno di quegli scrittori vecchio stile che prendevano appunti a matita su un taccuino in pelle nera.

Uno di quelli che carpivano conversazioni e confidenze con l’aria di chi non ascolta e non é là per ascoltare.

Ecco, ci vorrebbe uno così per raccontare la variegata umanità da spiaggia. Per riferire l’essenziale banalità di certi discorsi fatti sotto l’ombrellone. Per descrivere l’untuosità di certi corpi marmorei o il pallore impiegatizio di certe cosce cellulitiche.

Per spiegare che è un’impostazione di default del cervello femminile quella di correre ai ripari sempre all’ultimo minuto. Di affrontare la prova costume come fosse una prova di coraggio. Di digiunare come Pannella per eliminare cuscinetti e maniglie dell’amore. E tentare di assomigliare, anche lontanamente, alle modelle di Calzedonia. A quelle donne geneticamente modificate. A quelle donne di facili costumi (da bagno).

Storia vecchia, scontata, ripetitiva e quasi banale quella della prova costume.

Ed è inutile fare finta di niente e nascondere la testa sotto la sabbia.

Io la prova costume non l’ho superata. Nemmeno quest’anno.

Ho saltato i primi dieci capitoli e, comunque, non l’avrei superata neanche fosse stato un quiz a crocette con le soluzioni in fondo alla pagina. E siccome è l’unica prova in cui non è ammesso copiare io, alla fine, l’ho presentata in bianco.

Il costume, quello no, l’ho scelto nero. Si sa, il noir sfina.

Poi, lontano dai pasti e trattenendo il fiato, sono andata al mare.

Il bianco gallina morta delle gambe mi ha fatto imbarazzare. La forma a pera ma anche un po’ a clessidra del resto mi ha fatto sobbalzare.

Ho assunto, quindi, la posizione dell’otaria spiaggiata e, per consolarmi, ho mangiato un gelato.

Ed ho osservato la mia vicina di ombrellone. Quella che, per spararsi certe pose ginecologiche, pare stia digiunando da ormai due settimane.

Moriremo entrambe, ma io sarò più felice.

 

 

 

 

Confessioni di una mente pindarica

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Ci ho pensato a lungo e credo sia arrivato il momento.

Di cospargermi il capo di cenere e rivelare cose che non ho raccontato. Mai, a nessuno.

Confesso. Un giorno ho comprato un libro di Fabio Volo. E pure uno di Totti, quello sull’antica Roma. Però me ne sono pentita subito dopo. Giuro. Ho pensato alle foreste distrutte, agli alberi che muoiono ingiustamente e a quelli che magari avrebbero preferito seccarsi piuttosto che diventare libri di Volo o di Totti. O di altri sedicenti scrittori che pubblicano più libri di quanti ne abbiano mai letti.

Lo ammetto. Non so chi siano gli One Direction, una volta sono stata ad un concerto di Nino D’Angelo e la canzone Teorema, in realtà, parlava di me. Solo che Ferradini ha omesso di dire che, se un uomo mi prende e mi tratta male e mi lascia ad aspettarlo per ore e non si fa vivo e quando mi chiama lo fa come fosse un favore, alla fine io lo mando a cagare.

Faccio outing? Faccio outing. Non ho mai visto una puntata di Desperate Housewives, le cose di Swarovski non mi piacciono, soffro il solletico, piango alla vista di un topo, sono un’accumulatrice seriale di borse, odio quelli che ordinano il caffè al vetro e pure quelli che mi stringono la mano senza stringermela.

Ebbene si. Mangio il panettone fuori stagione, se non so scrivere una parola vado a cercarla su google, non sopporto il collant velato e neanche le catene di sant’Antonio su whatsapp. Non riesco a prendere una posizione sulla barba di Conchita e nemmeno sullo shatush di Angela del Grande Fratello. Quando ovulo divento intrattabile, ho la fissa delle targhe delle macchine e se a volte parlo da sola è giusto per avere consigli dalla parte più saggia di me.

Finalmente posso dirlo. Non sono mai riuscita a risolvere il cubo di Rubik nè la questione dell’uovo e della gallina. Non sono mai riuscita a capire se siamo nell’ora legale o in quella solare, come si prepara il brodo di giuggiole e se le farfalle nello stomaco sono da considerarsi carboidrati o proteine.

Ok, ancora un paio di cose e poi smetto. La mia coscienza non è proprio pulita pulita. E’ più a macchia di leopardo. A volte scrivo cose da fumatrice di roba pesante. E invece sono così al naturale. Fregare una come me non è poi così difficile. Solo che si può fare una volta soltanto. Di solito, poi, ci metto sempre una pietra sopra. Una pietra. Con la foto. E le date. E una bella frase d’addio. Ecco, l’ho detto.

Dimenticavo. Colleziono figurette da una vita. Scambio doppioni.

Applausi

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Ci sono cose che non capirò mai.

La carta igienica profumata. Il tasto aria fredda del phon. Gli applausi di circostanza.

Quelli che si fanno ai funerali, ad esempio.

Non ho mai capito cosa ci sia da applaudire ad un funerale. Forse il morto. Forse la morte. O forse è solo un tributo all’ultimo atto della vita. All’ultima replica dell’ultima scena. Applauso. Sipario.

I familiari del morto, gli unici a soffrire davvero, però, non applaudono mai. Applaudono gli altri, quelli che hanno bisogno di battere le mani ai morti per sentirsi vivi.

Un parroco toscano ha addirittura ingaggiato una claque. “La compagnia dei defunti”, Padre Marcello l’ha chiamata così. Per garantire a tutti un funerale dignitoso e affollato. Dove basta partecipare, esserci, fare numero. E, all’occorrenza, battere le mani.

Una consuetudine tutta italiana quella dell’applauso inopportuno, stonato, fuori luogo.

Tipo quello che si fa sull’aereo. Dove l’atterraggio diventa un evento straordinario e il comandante dell’aereo un provvidenziale nocchiero. E l’applauso, quasi la pacca sulla spalla.

Come se il pilota fosse atterrato miracolosamente senza carrello in mezzo alla foresta amazzonica. Come se non avesse fatto semplicemente il suo lavoro. Che è, appunto, anche parcheggiare.  E, di solito, non si applaude chi parcheggia la macchina o l’autobus.

Ci sono applausi che possono poi risultare insulti. Cinque minuti è durata la standing ovation ai poliziotti che hanno ammazzato Federico Aldrovandi, massacrandolo di botte. Cinque minuti. Più della loro permanenza in carcere.

Insomma, gli applausi non mi piacciono. Tantomeno quelli registrati, quelli da copione, quelli finti da Drive In, da Paperissima.

Clap, clap, clap. Sonore risate e scroscianti battimani. E, ogni volta, lo stesso dubbio. Che forse sono io che non capisco le battute.

Non per vantarmi, ma mi sono alzata dal letto anche oggi.

Dunque, meriterei anche io 92 minuti di applausi. A scena aperta. Grazie.

Palla al centro

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Esigo un applauso.

So parcheggiare in retromarcia, so cambiare una lampadina e da qualche giorno so pure cos’è il fuorigioco.

Se, in un negozio, ti lancio un paio di scarpe e tu lo prendi oltrepassando l’ultima cassa, l’allarme suona. Un tizio, su Twitter, me l’ha spiegato così ed io finalmente ho capito.

Perchè il pallone fa rima con testosterone. Si sa. Io, invece, ai tacchetti preferisco i tacchi a spillo. E, anche questo, si sa.

I Mondiali di calcio, però, sono vicini e visto che fra un mese saremo tutti allenatori, ho deciso anch’io, per amor di Patria, di prepararmi sull’argomento.

L’approccio con la materia è stato di tipo antropologico.

La palla è rotonda. Le partite si vincono a centrocampo. I gol fuori casa valgono doppio. Il gioco finisce quando l’arbitro fischia. La moglie dell’arbitro è una peripatetica. La partita dura, di norma, 90 minuti e inizia solo se un certo Genny  ‘a Carogna dà il consenso.

Dai fondamentali del calcio sono poi passata allo studio delle regole fallocentriche.

Guai a dire, infatti, che ventidue tizi muscolosi che, in maglietta e pantaloncini corti, si strattonano e si tirano calci sugli stinchi stanno solo giocando. Stanno cercando di infilare una palla in una rete da pesca a maglie larghe. Penetrando la difesa e violando la porta.  Ecco, pensare al calcio come metafora sessuale è stato, per me, illuminante.

Sono molto preparata anche sulle conversazioni calcistiche.

Quelle da bar, quelle in cui, per fare bella figura, è necessario sfoggiare termini come biscotto, cucchiaio, missile, ciavattata o parlare con convinzione di rigore, punizione, pressing, dribbling, calcio d’angolo, fallo da dietro e palla al centro.

Quelle da soggiorno, quelle da intellettualismo datato, quelle in cui, partita dopo partita, è doveroso gridare allo scandalo per questi bamboccioni viziati e strapagati che tirano calci ad un pallone.

E quelle da salotto, quelle nazionalpopolari da rutto libero, quelle in cui le partite vanno  rigorosamente commentate stravaccati sul divano, in mutande e con una birra in mano.

Alla fine dei Mondiali dovrò poi ricordarmi di tornare a far finta di non capirne nulla di calcio.

Far finta che il calcio non sia solo un mondo pieno di prime donne.

E  ricordarmi che, come fanno girare le palle le donne, nessuno mai.

 

 

 

 

 

 

 

 

Narciso 2.0

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Non dipende dalla stagione, dall’ora o dall’età. Quelli che amano se stessi lo fanno sempre, in tutte le circostanze. Amano se stessi incondizionatamente.  Perciò si fotografano.

In bagno, a letto, a pranzo, col gatto. In ascensore, in palestra o appena usciti dalla sala operatoria dopo la colonscopia.

In pose ammicanti, con l’occhio felino e la bocca a culo di gallina. E col filtro color ittero.

Selfie, si chiamano così. Ma sono solo degli autoscatti, così come le escargot sono solo delle lumache e il briefing è solo una semplice riunione.

All’inizio fu lui, Narciso.  Specchiandosi nell’acqua pura e limpida di una fonte si innamorò di se stesso. Si invaghì perdutamente della sua stessa immagine, del suo viso, dei suoi occhi, delle sue labbra.

Poi, d’un tratto, capì.

Capì che era inutile tentare di afferrare quella figura evanescente. Capì che non avrebbe mai avuto per sè l’oggetto del suo amore. E si lasciò morire così, struggendosi inutilmente.

Se Narciso non si fosse invaghito del proprio riflesso, non sarebbe nato il narcisismo. Ma nemmeno il fiore che porta il suo nome. E forse neppure Instagram.

Perchè è lui il padre storico di tutti i selfie.  E la selfite, oggi, è ormai cronica.

Selfano tutti. Papi, cardinali, capi di stato, attori. Persino la casalinga di Voghera e l’uomo di mondo, quello che ha fatto il militare a Cuneo ma che ama taggarsi ovunque, geolocalizzandosi come un mappamondo.

Narciso si specchiava nelle acque di uno stagno. Il moderno Narciso, invece, si ammira sul display di un cellulare. E siccome non sa vivere senza un pubblico di ammiratori, comincia a immortalare ogni momento della giornata e a condividerlo con altri Narcisi 2.0.

Si scatta, quindi, il selfie del buongiorno, quello della buonanotte, quello al volante o quello con la banana. Si fotografa mezzo svestito o con l’ascella pezzata. Si fa l’autoscatto mentre si scaccola in macchina e si fa pure il selfie aftersex. Perchè una volta, dopo l’amore, ci si accendeva una sigaretta. Ora invece ci si fotografa e la foto post coito si spara subito in rete.

Il vero selfie d’autore rimane, però, quello fatto in bagno, allo specchio, con le mattonelle di ceramica e lo sciacquone del wc come sfondo. Sono i selfie fatti nei cessi. Da non confondere con i cessi che si fanno i selfie.

D’accordo, sono solo autoscatti. Ma così tanto pieni di narcisismo che, a volte, fanno rimpiangere i selfie veri e propri.

Quelli di una volta. Quelli che provocavano la cecità.