Festina lente

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Poi c’è questa primavera che non ne vuole sapere più nulla dell’inverno e sembra scoppiare improvvisa, svegliando alberi e uccellini che parlano mille lingue e scrollando un po’ anche noi che siamo mezzi rincoglioniti dal tempo che passa senza far più rumore.

Ce ne stiamo con le mani in tasca e ci guardiamo intorno, cercando conforto in posti vecchi sperando che sembrino nuovi, e in facce nuove sperando che ci ricordino volti vecchi.

Giorni asincroni, di lentezza da goccia d’acqua che cade di quando in quando, di orologio a cui ogni tanto vanno rimesse le lancette nell’ora giusta.

In questo lungo fermo immagine che ha interrotto di colpo la pellicola che stavo vivendo, io sono Achille piè veloce, ma sono anche la tartaruga di Zenone e procedo con la prudenza di chi non sa bene dove poggiare i piedi e con la fretta di mettere due cose in macchina e partire e arrivare proprio mentre il sole tramonta sul mare.

Festina lente.

Rallento per accelerare, come una coraggiosa barchetta di carta che per rimanere in piedi deve procedere senza indugi, ma con l’accortezza di chi saggiamente sa dove vuole arrivare e quando e come.

E anche se il mio baricentro vorrebbe essere altrove, la cautela gli fa da stampella perché arrivata a questo punto so che le battaglie contano, ma conta di più il finale.

Nel frattempo faccio sogni che sanno di futuro perché fra quello che ho e quello che vorrei, forse un equilibrio c’è.

E’ non aver mai smesso di desiderare.

Ed io desidero la vita piuttosto casuale, incasinata e improvvisata che avevo prima dove l’unica cosa contagiosa era una risata, ma anche il mondo che ancora devo vedere, i viaggi, le strade e il domani.

Mi piacerebbe che la vita ricominciasse proprio da dove l’avevo lasciata e, con una consapevolezza diversa, riprendere ad una ad una le cose che sono rimaste ad aspettarmi.

E tu, quando tutto sarà finito, quale sarà la prima cosa che farai?

Io domandarmi se sarà davvero tutto finito (oltre ad andare a fare una passeggiata visto che ultimamente persino i decreti escono più di me.)

Andrà tutto bene?

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Se un giorno qualcuno mi avesse detto che un virus a forma di corona avrebbe tenuto sotto scacco il mondo intero e che le città si sarebbero svuotate e che per uscire di casa avrei avuto bisogno di un lasciapassare, credo che mi sarei fatta una risata panciuta.

Adesso che è successo, la risata è stonata e attonita, soffocata dalla mancanza di aria, dall’ansia, dal senso di inadeguatezza.

È come camminare con gli occhi lucidi e in punta di piedi sopra un ordigno difettoso e sperare che arrivi velocemente qualcuno che lo sappia disinnescare.

Siccome si apprezza ciò che si ha solo quando ciò che si ha viene a mancare, a me mancano certi punti fermi che non sono necessari, ma confortanti.

Gli abbracci, le strette di mano, le pacche sulle spalle, le cene con gli amici, le chiacchiere ravvicinate sul divano.

Esco solo per andare al lavoro, con l’autocertificazione in tasca e mille paure in testa.

Perché lavoro in un ente pubblico, in uno di quegli uffici che un decreto decretato nottetempo ha considerato servizio essenziale. E come tale non si può interrompere, né si può fare da casa.

Quindi la mattina mi vesto di cautela e di coraggio e vado, attraversando strade vuote e piazze silenziose e c’è la primavera tutt’intorno che intanto se ne frega.

La scrivania come trincea e nel cassetto un igienizzante per le mani che uso come se fossi Ponzio Pilato.

Pensando alla mia famiglia che è lontana mille km da me, ma so che per stare vicino a qualcuno non è necessario averlo accanto, quindi stringo i denti e penso ai fusilli pesce spada e melanzane che mia mamma mi farà appena potrò tornare giù, all’abbraccio di mio nipote in cui ritrovo tepore e tenerezza e il nodo in gola, piano piano, si allenta.

Andrà tutto bene?

Andrà tutto bene solo se ci impegneremo a rispettare le regole, se ci comporteremo responsabilmente, se resteremo a casa per il tempo che servirà, se ci prenderemo cura di ogni nostra paura e anche se fosse una bugia dobbiamo credere che tutto andrà bene.

Io non lo so se andrà bene, ma so che farò in modo che non vada altrimenti.

Stand by

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In questi giorni di tempo sospeso, anche il fiato lo è.

In sospensione tra quel che non c’è ancora e quel che prima o poi avverrà, tra lo stupore e il disorientamento, tra ciò che sembra superfluo e le distanze che diventano necessarie.

Una sospensione momentanea dal fare quotidiano, aspettando la ripresa rassicurante delle abitudini che presto torneranno ad annoiarmi.

E mentre aspetto penso che queste ore sono la mia vita e che forse potrei riempire questa attesa con qualcosa come una preghiera, ma non lo so fare e che allora ci sono solo due modi per dimenticare l’oggi: la nostalgia di ieri e la speranza di domani.

Sotto questa teca di cristallo, aspettando che qualcuno la sollevi, rileggo le parole di Manzoni che sembrano appena scritte: “La peste che il tribunale della sanità aveva temuto che potesse entrar con le bande alemanne nel milanese, c’era entrata davvero, come è noto; ed è noto parimente che non si fermò qui, ma invase e spopolò una buona parte d’Italia…

Dentro quelle pagine c’era già tutto. L’incertezza, la caccia agli untori, le voci incontrollate, la razzia dei beni di prima necessità.

Solo che era il 1630.

E rileggo anche le pagine di Camus sulla città algerina di Orano che viene messa in quarantena.  La città è bloccata, ma al suo interno la vita continua a scorrere con le sue contraddizioni: c’è chi lucra sulla mancanza di viveri, chi scrive un libro senza riuscire ad andare oltre la prima frase, chi è convinto che la peste sia una punizione divina e chi si perde nelle frivolezze della vita quotidiana.

“Al principio dei flagelli e quando sono terminati, si fa sempre un po’ di retorica. Nel primo caso l’abitudine non è ancora perduta, e nel secondo è ormai tornata. Soltanto nel momento della sventura ci si abitua alla verità, ossia al silenzio.”

Come gli abitanti di Orano, anche fra noi c’è chi prega e chi bestemmia, chi piange sommesso e chi conforta gli altri, chi sta zitto e chi urla incazzato, chi si rifugia in discussioni speranzose e chi in silenzi disperati, chi si mette la mascherina e chi usa l’amuchina.

E poi ci sono le zone rosse, l’isolamento, il panico diffuso, gli abbracci proibiti e quelli che nessuno potrà mai proibire.

Prima o poi finirà. Speriamo prima, che tra pochi giorni è primavera.

Se avessimo una sponda di fiume potremmo sederci e guardare come finirà o come finiremo.

Chi lo suggerisce d’altronde è un cinese, sarà un caso?