A cose che farò senza averne voglia e ad altre che vorrei fare, ma non posso.
Certe giornate iniziano così, pensando.
Fuori i contorni irregolari delle Apuane che ritagliano metri al cielo e dentro le note della Suite bergamasque che raccontano la nostalgia.
E mentre il Clair de lune riempie la stanza, un pettirosso si posa sul mio davanzale, fischia un discorso lungo e complicato e vola via.
Debussy -non potevo non chiamarlo così- è tornato anche il giorno dopo e quello dopo ancora.
E’ curioso, un po’ sfacciato e mi guarda, ogni volta, con il sospetto che merito.
Io gli sbriciolo qualche biscotto sul davanzale, lui mi intona la strofa di una nuova canzone e poi va via, facendo casino con le ali.
Mi piace guardarlo mentre compie parabole spericolate a mezz’aria e va a posarsi sui rami della magnolia, poco più in là.
Come ogni inverno, sta facendo il nido per la famiglia arrivata da chissà dove.
Perché ognuno si costruisce da solo lo spazio nel quale esistere.
Il mio nido è fatto di mattoni, calce e mura; quello di Debussy di foglie, muschio e rametti di legno raccattati qua e là.
Rifugi buoni ed accoglienti che danno fiato, quando tutto il resto lo toglie.
Si abbassano le paratie di protezione, con un piccolo click si fa scattare la serratura e, finalmente, ci si sente a casa.
A casa non si va, a casa si torna.
E’ il posto dove si accumulano storie, ricordi e minuscoli pezzi d’esistenza che sopravvivono all’andare delle stagioni.
Dove, a piedi scalzi e ad occhi chiusi, si cammina lentamente tanto non c’è da andare da nessuna parte perché si è già arrivati.
Dove si tengono i sogni.
Debussy, ogni mattina, mi racconta i suoi.
Cinguetta, fischia e canta ed è come se mi parlasse.
E talvolta il suo è l’unico ragionamento sensato della giornata.