Mi sono concessa una piccola pausa, di quelle che giovano al cuore e alla mente e sono tornata con pezzetti di mondo nella valigia, parole in una lingua che mi diverte e ricordi da sommare a quelli che già ho in testa.
Nulla di che, ma andare via per qualche giorno e rifugiarmi in altri luoghi mi è sembrato comunque un buon modo di farmi un po’ di bene.
Ho percorso strade assolate e brulicanti di vita, sono passata davanti alla friggitoria di egiziani mentre sistemavano sul banco ravioli di carne fritti, poco più in là una ragazza parlava in cinese ridendo al telefonino, sull’altro marciapiede una coppia di latini ballava una rumba mentre un ragazzo indiano girottolava in monopattino con un coetaneo russo, proprio quando una ragazza araba sussurrava qualcosa ad un bambino che giocava con un peluche.
Avevo fatto solo pochi passi e sentito già tante voci: ero in Times Square e, senza saperlo, ero al centro del mondo.
New York è la città in cui ci si avvicina senza conoscersi e ci si scambiano nomi, strette di mano, confini, risate e qualche chissà.
Poi si torna e il cuore non è esattamente lo stesso.
Sfumano i suoni, i doveri e anche le ire.
Rimangono mozziconi di parole, l’entusiasmo, lo stupore e centinaia di foto nostalgiche da guardare e riguardare. L’inverno sarà lungo, ma me le farò bastare.
Ho aspettato di salire al centoduesimo piano dell’Empire proprio come fanno i bambini. Ho guardato che ora fosse almeno dieci volte, ho sperato che il sole tramontasse, che lo skyline si illuminasse e che la gente smettesse di andare e venire.
Poi, finalmente, le porte dell’ascensore si sono aperte e hanno dato vita ad uno spettacolo che mi ha mozzato il fiato.
A bocca aperta e cuore pieno ho guardato il mondo dall’alto in basso per un po’: come in una puntata di Gossip Girl ho fatto shopping sulla Fifth Avenue, mi sono seduta su una panchina di Central Park con Woody Allen, ho mangiato un croissant davanti alla vetrina di Tiffany con Audrey Hepburn, ho guidato un taxi di notte insieme a Robert De Niro, discusso con uno spacciatore del Bronx come in Carlito’s Way e mi sono arrampicata sulle scale antincendio del Greenwich Village dopo essere andata da Magnolia Bakery a comprare cupcake.
Proprio come in un film, a questo ho pensato tutto il tempo.
Quando sono entrata al MoMa avevo il biglietto in mano e il sorriso in bocca.
Mi sono emozionata con la Notte Stellata di Van Gogh, ho sognato ad occhi aperti guardando le Ninfee di Monet, ho pianto davanti agli Amanti di Magritte e mi sono interrogata di fronte alle linee geometriche del quadri di Mondrian.
Poi, per qualche ora, ho passeggiato su e giù per le rampe a spirale del Guggenheim Museum e, davanti ai quadri di Kandinsky, sapevo di essere nel posto più bello del mondo.
Proprio come in un sogno, a questo ho pensato tutto il tempo.
Con fatica ora sono tornata alla solita routine, incastrata tra una sedia ed una scrivania.
Purtroppo, qualche giorno prima di andare negli Stati Uniti, gli Stati Uniti cancellavano diritti che si ritenevano acquisiti, considerando di fatto l’aborto una forma di omicidio, ma permettendo a chiunque di uccidere con armi comprate in libera vendita.
Così, anche dalle nostre parti, si è riacceso il dibattito sulla legge 194, sulla questione dell’obiezione di coscienza e sulla libera volontà della donna e il vento che soffia non sembra annunciare nulla di buono.
Era il 2017 quando, guardando le prime puntate de “Il racconto dell’ancella” che descriveva un mondo in cui i diritti delle donne venivano negati dalla presa di potere di una cultura patriarcale e teocratica, azzardavo che di distopico in quella serie ci fosse poco e che si trattava di una profezia purtroppo realizzabile.
Ed eccoci qua.
I segnali, guai ad ignorarli; i diritti, guai a smettere di rivendicarli.
Ma questa è solo la mia opinione e, come tale, vale giusto due centesimi (di dollaro, of course!).