Storia di un oblio

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Ci sono storie che non si cercano. Succedono e lasciano un segno del loro passaggio.

Storie, con dentro persone, che vale la pena raccontare.

Questa è la storia di un oblio. Di un giorno complicato, fatto di mente stanca e pensieri pesanti.

Quel giorno sono uscita dal lavoro e, prima di tornare a casa, mi sono fermata a fare la spesa.

Mi servivano le solite quattro cose. Gesti meccanici. Ritualità. Fretta.

Mentre caricavo le buste in macchina pensavo già alle cose da fare nel pomeriggio, alle persone da chiamare, agli impegni da rispettare.

E’ successo così, in un attimo. Un piccolo corto circuito della memoria.

Sono salita in macchina e sono andata via. E la mia borsa è rimasta lì, dentro il carrello, nel parcheggio del supermercato.

I soldi, i documenti, le carte di credito, le chiavi di casa, il telefono, le foto del nipotino. C’era una parte della mia vita, dentro quella borsa.

Dopo venti minuti di oblio, ormai vicino casa, il flash. Improvviso. Come ricevere uno, due, tre, dieci pugni alla bocca dello stomaco.

Stordita e sbigottita. Umana e fallibile. Così mi sono sentita.

“Come cazzo è potuto succedere?” continuavo a chiedermi mentre, a rotta di collo, tornavo verso il supermercato.

Il parcheggio era vuoto. Nessun carrello fuori posto. Nessuna traccia della mia borsa.

Ho sentito, allora, il groppone salire dalla pancia ed uscire, liquido, dagli occhi.

“Sei tu che avere dimenticato borsa nel carrello? Borsa beige di Liu Jo?” mi ha chiesto il ragazzo senegalese che avevo visto tante volte vendere accendini e cianfrusaglie lì davanti.

L’ho guardato ed ho annuito.

“Avere trovato io e avere portato dentro, tu non preoccupare. Tu andare dal direttore del supermercato e lui restituire te borsa”.

Verbi coniugati all’infinito che, in quel momento, mi sono sembrati infinitamente perfetti.

Avevo recuperato la mia borsa, quella beige di Liu Jo.

La borsa che un ragazzo extracomunitario aveva trovato nel parcheggio di un supermercato e che avrebbe potuto benissimo aprire. E prendere i soldi dal portafoglio. E smettere di vendere accendini e cianfrusaglie per qualche giorno.

Non mancava nemmeno un centesimo, invece. Dentro quella borsa, ogni cosa era al suo posto.

Gli ho detto grazie. Mi ha risposto, sorridendo, che non dovevo ringraziarlo. Che aveva fatto solo il suo dovere.

Ho provato gratitudine. E stupore. Perchè in un paese dove l’illegalità è la norma, chi compie il proprio dovere desta quasi meraviglia. Perchè in un paese dove il diverso è guardato con sospetto, capita che il diverso sia, invece, migliore di chi lo guarda con sospetto.

Per sdebitarmi, allora, ho comprato alcune cose dalla sua bancarella improvvisata. Un pacco di fazzolettini, una confezione di calzini, un accendigas.

Gli ho dato una piccola ricompensa. Mi ha dato un braccialetto portafortuna.

Viste le necessità di ciascuno mi è sembrato uno scambio equo.

Giù la maschera

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Dove cazzo è Epicuro quando ho bisogno di lui?

Voglio imparare l’atarassia, quella da carnevale. E non sentire più la tristezza salire dalla pancia, quando sto in mezzo a pagliacci dai capelli colorati, supereroi assortiti, principi azzurri e principesse Sissi.

Voglio restare imperturbabile. E non avvertire più il gusto aspro della malinconia e quello amaro del disincanto, quando vedo gente che prova ad essere altra gente.

Sotto una pioggia di coriandoli e stelle filanti, ho visto una famiglia intera, travestita da segnali stradali, fare il trenino ostentando allegria.

A-e-i-o-u, ipsilon.

E la mia vicina di casa, 69enne, vestita da cartone di latte (parzialmente scremato).

Brigitte Bardot Bardot.

Insieme a lei, un gruppetto di signore mascherate da carte da gioco. La regina di cuori sparava schiuma bianca.

Ay ay caramba.

Ho visto facce tristi coperte da maschere che sorridevano felici.

Essere o apparire. Tutto qui. Bello, se nessuno ti costringe.

Invece, quando il carnevale finisce, si torna ad indossare le maschere di sempre. Quelle che nascondono fragilità, che camuffano ferite, che coprono cicatrici di battaglie perdute.

Ogni giorno, nel mucchio, si sceglie quella più adatta.

A fine giornata, poi, a casa e tra gli affetti, la maschera cade.

Un po’ come succede al protagonista della carriola pirandelliana.

Ogni sera, intorno alle otto, smette per un attimo di indossare la forma che gli altri gli hanno dato e da personaggio diventa persona. Perchè solo in quel momento, quello in cui fa fare la carriola alla sua cagnolina, si sente se stesso. Senza maschere, senza armature, senza corazze.

Sentirsi fragili, nudi, limitati. E’ l’unico modo, forse, per agire da forti.

Al mio tre, dunque, giù la maschera.

Senza sfumature

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La cosa che sto per dire, posso dirla nell’unico modo possibile. Sottovoce, con lo sguardo basso e con il capo cosparso di cenere.

Ebbene si, io la trilogia delle sfumature l’ho letta. E non si è trattato solo di una veloce sbirciatina. Quei libri li ho proprio letti, ahimè.

E’ successo qualche anno fa, quando ne parlavano tutti. Quando se ne parlava ovunque. Volevo capire questa cosa delle sfumature ed ho capito che io sono per il bianco o per il nero. E che quella che gli altri chiamano sfumatura per me, spesso, è solo un’ombra. O un difetto della luce.

Sono libri che stanno alla letteratura erotica come il gambero surgelato sta all’aragosta. Ed io, a metà del terzo, mi sono arresa agli sbadigli e alla noia.

La storia, su per giù, è questa. C’è una ragazza giovane e inesperta, tale Anastasia Steele, che incontra un miliardario potente ed affascinante, tale Christian Grey.

C’è che lui obbliga lei a firmare un contratto e fra i due inizia una relazione ad alto tasso erotico fatta di fruste, legacci, palline vaginali e altri simpatici giochini.

Poi c’è la stanza rossa, quella delle torture, dove Anastasia e Christian copulano come conigli. Si, perchè loro copulano più volte al giorno, con cinque secondi netti di fase refrattaria fra una copula e l’altra.

Ogni tanto parlano, poi copulano. A volte mangiano, poi copulano. Talvolta lavorano, poi copulano.

Alla fine si sposano e, copulando copulando, figliano. Fine della storia.

Nulla a che vedere, ad esempio, con l’epistolario di Anaïs Nin ed Henry Miller. Dove l’eros e il thanatos si fondono con il corpo e con lo spirito. Dove ogni singola parola trasuda erotismo e sensualità.

Voglio guardarti a lungo e con ardore, toglierti gli indumenti, coccolarti, esaminarti. Ti voglio per un’intera giornata almeno. Voglio andare in giro con te, voglio possederti. Non sai quanto insaziabile io sia.” Così scriveva lui a lei.

Voglio sentire ancora il tumultuoso pulsare dentro di me, il sangue impetuoso, ardente, il lento carezzevole ritmo e l’improvvisa violenta spinta, la frenesia delle pause quando odo il suono della pioggia. Voglio fare con te cose talmente pazzesche che non so come dirle. Voglio che tu abbia da me l’esperienza di essere amato.” Così rispondeva lei a lui.

Anastasia e Christian, invece, hanno “occhi di brace“, “ginocchia tremanti“, “la voce roca e calda come cioccolato nero fuso al caramello“.

Lo stesso organo genitale femminile, ad un certo punto, viene definito “oscuro luogo inesplorato“. Ma io dico, può una scrittrice erotica chiamare la patatina “oscuro luogo inesplorato“? E dai, sù!

Poi, come se il libro sulle cinquanta sfumature di grigio non fosse già abbastanza, ecco che sta per uscire al cinema l’omonimo film.

I botteghini sono stati presi d’assalto. Da donne che, manco a dirlo, fanno l’amore una volta ogni due settimane, con il pigiamone di flanella e con la luce spenta. E da uomini che, del kamasutra, conoscono giusto la posizione del missionario.

E se, di solito, i film sono sempre più brutti dei libri, m’immagino come sarà quello sulle cinquanta nuances di antracite.

Meglio YouPorn, allora. O la camporella.