Scritto di corsa (seconda parte)

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Con gli occhi accarezzo e fermo, raccolgo e imprigiono.

Ma non trovo il bello ovunque. E’ questo il brutto.

La bruttezza sorge tra le pieghe di una mattina incupita, rimuginando su pezzi di tempo e pezzi di me, su ventuno grammi di pratica e una tonnellata di teoria, su battaglie perse in partenza, trame spezzate, fili rotti, persone sbagliate, sciatterie che deturpano lo sguardo, colline sventrate da autostrade, grattacieli accanto a chiese barocche, le vele di Scampia, i capelli di Trump, il groppo in gola, la grossolana superficialità, la sterile ottusità, il buco della serratura, la musica cafona, la canzone del Pulcino Pio, gli zirconi spacciati per brillanti, le borse taroccate, i libri commerciali, la trilogia delle sfumature, la paura della paura, la mancanza d’aria, le assenze, le presenze che si fanno invadenza, il leccaculismo che si fa zerbinaggio, le parole che si scagliano violente come proiettili, i giochini che deformano il vero, i giochi che in troppi giocano, i topi, i brutti anatroccoli che diventano belle oche, la coda di certi risibili pavoni, i tatuaggi con errori ortografici, le luci fulminate dell’albero di Natale, le giornate nere, i musi lunghi, i desideri bruciati, i sogni chiusi a chiave ma mai scordati, i morsi della fame, i rimorsi della coscienza, l’ennesima volta, il niente di nuovo, le bomboniere pacchiane, la tv spazzatura, i programmi della D’Urso, le marchette di Vespa, le bestemmie, il branco, i rivoluzionari da divano, i leoni da tastiera, gli uomini che ammazzano le donne, le case senza libri, le persone senza personalità, il tiramisù senza mascarpone, il latte versato, negarsi o negare, regalarsi e poi rivolersi indietro, la vita in cocci, gli incubi, l’indifferenza, i macigni che inchiodano, i pregiudizi che abissano, un brutto carattere o il poco cervello o la somma delle due cose, il tempo passato ad aspettare che succeda qualcosa che non succede mai, le parole del prima farcite di nauseabonde promesse, le parole del dopo grondanti di retorica petulante, le persone che sono veramente delle brutte persone e un inventario di cose brutte scritto di corsa.

Ma c’è dell’altro, oltre al quotidiano che accumula e vomita brutture a bizzeffe.

Sta lì, tra certe ombre, per sanare certe anime.

E la mia ha come l’impressione di potercela fare.

Scritto di corsa

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Strappo la bellezza ovunque essa sia e me ne faccio dono.

Penso alla bellezza incuneata tra colline che scoppiano di verde, montagne che scoppiano di neve, tramonti che scoppiano di rosso, sorrisi che scoppiano di vita, navate grandi, spoglie e nude di chiese sconsacrate, templi indiani, suk arabi, il nulla fatto sabbia del deserto, Venere allineata tra terra e sole, le radici sotterranee di una quercia antica e sapiente, il grano giallo oro, le sfumature dell’orchidea, il pastello degli Adelphi, le Metamorfosi di Escher, la poesia della Szymborska, le nuvole di Magritte, quelle bianche di Einaudi, le vecchie ballate irlandesi, il piano di Chopin, la tromba di Miles Davis, il violoncello di Rostropovič, Keith Jarrett che dirige un’orchestra d’archi, la chitarra di Jimmy Page in Stairway to heaven, la giornata perfetta di Lou Reed, il tepore di giorni di letto e temporali, la ciambella di yogurt, mandorle e cannella, la marmellata di fichi, la pasta al forno, il vino rosso, il suono della campanella della ricreazione, le dediche sui libri, La concessione del telefono, la Trilogia della città di K., Il vecchio e il mare, la spiaggia d’inverno, un bagaglio leggero, i viaggi in treno, il sugo che faceva mia nonna, le rughe di mio nonno, gli angoli smussati, le spalle grandi, le cose che scricchiolano, le fragilità malcelate, i complimenti sentiti, gli sguardi imbarazzati, le guance pronte ad arrossire, l’odore del bosco di notte, il cedro bianco del Narciso Rodriguez, gli orecchini di perle, il gioco dei riflessi di Vermeer, il puntinismo di Signac, i disegni di mio nipote, una casa gialla con le persiane verdi, un ciliegio, un gatto grigio, un’altalena, le canzoni a squarciagola, i film in bianco e nero, i mandala colorati, la posizione del cigno, l’armonia del David, la sofferenza del Cristo velato, gli abbracci che sanno di partenze e quelli che sanno di ritorni, i piccoli gesti che non sono mai gesti piccoli e un inventario di cose belle scritto di corsa.

Per scorgere la bellezza servono occhi sgombri e prospettive insolite.

A me, a volte, batte il cuore solo a pensarci.

In penombra

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Si riesce ad ostentare tacendo, figuriamoci con le parole.

Si impastano consonanti e vocali con sabbia e saliva e si costruiscono palafitte sgangherate che, ad occhi lontani e disattenti, sembrano quasi castelli incantati.

E nell’amletico dubbio fra essere o avere, si ostenta l’avere e anche l’essere.

Messinscene così ben allestite da apparire verosimili.

Recite, giochi di ruolo, commedie grottesche che, a lungo andare, diventano farse.

Ma, per alcuni, niente è più importante e necessario di un palcoscenico.

Così ogni giorno se ne stanno sul proscenio, a pavoneggiarsi sotto un occhio di bue.

Ognuno a recitare una parte, a raccogliere applausi, a mostrare il lato migliore di sè, quando poi è dei difetti che ci si innamora.

Alla luce dei riflettori, io preferisco la penombra che c’è dietro le quinte.

Acquietata dal cremisi del sipario, mi godo lo spettacolo e sorrido di certe scene di cui mai farò parte.

Lascio che le dive entrino in pompa magna e che gli attori protagonisti sgranino il consueto repertorio ad alta voce, quasi fosse un rosario.

Eccoci, sembrano dire, siamo qui.

C’é di peggio, mi chiedo, di chi imbelletta le parole per attirare l’attenzione, fino a sprofondare nel ridicolo?

L’esibizionismo è forse il parente più prossimo della solitudine, mi rispondo.

Mi discosto senza far rumore da chi vuole stare al centro della scena e da chi ha occhi abituati solo ad accecanti fulgori.

In fondo, io sono una comparsa da poche battute.

Non riesco a fare da spalla. Né a reggere la parte.

Non faccio mai nemmeno le prove, allora improvviso.

Ma è un gran sollievo non essere costretta a recitare doti, pregi e vite che non ho.

E’ una gran consolazione non avere l’assillo di usare parole iperboliche quando parlo di me.

Evito le luci sfavillanti che rendono tutto uniforme e me ne sto in penombra, dove le cose si vedono poco a poco.

Ed è lì, in mezzo a tutto ciò che non abbaglia e non sgomita e non strepita, che scovo minuscoli tesori.

C’è il silenzio che cura e nutre e parole che somigliano a chi le dice.

Poi, quando mi stanco della recita, chiudo il sipario.

Le finestre rotte

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Comincio dalla fine che tanto l’inizio lo leggono tutti.

Le elezioni sono belle, giuste e forse la cosa più democratica che si sia inventata finora. Basterebbe, però, che nessuno poi le vincesse.

Perché tanto i veri perdenti siamo sempre noi.

Loro hanno il banco e il banco vince sempre.

A destra, a sinistra, al centro, di sopra, di sotto.

Io, alla storia della democrazia, ci avevo pure creduto. I libri del liceo me l’avevano raccontata così bene che ci avevo creduto.

Atene e quella democrazia così bella, diretta, dove tutti andavano all’Assemblea e votavano e prendevano la parola e proponevano nuove leggi e modificavano leggi esistenti per il bene comune.

Dove le decisioni venivano prese collettivamente e venivano garantiti i diritti di tutti, ricchi e miserabili, che avevano a disposizione ciascuno una testa e un voto.

Ieri Pericle, oggi Trump.

Ieri il Partenone, oggi la Casa Bianca.

Che, da oggi, è una casa tinteggiata di bianco e con le finestre rotte.

Quella delle finestre rotte è una teoria sociologica che spiega molte cose.

Se una finestra è rotta e nessuno la ripara, chi ci passa davanti può arrivare a pensare che siccome da quelle parti non ci sono regole di buonsenso nè senso civico, allora, forse, si possono spaccare i vetri di tutte le altre finestre e entrare nel palazzo e occuparlo, oppure dargli fuoco. Tanto non si verrà né giudicati, né puniti.

Così poi quel pensiero si moltiplica, si amplifica, si emula qua e là.

E il vento intriso di paura, razzismo, ignoranza, arroganza che soffia dalle finestre rotte si diffonde in giro, qua e là.

Stavolta, però, è come se l’aria fosse viziata fin dall’inizio e le frasi fossero vuote e senza senso e la politica fosse solo la stampella per parole prive di agganci con la realtà.

Anche le argomentazioni, da una parte e dall’altra, erano solo una caterva di stronzate da cui non si poteva trarre nulla, da cui non poteva nascere niente di buono.

Che poi, in fondo, la politica è una roba molto complicata che si basa su una domanda molto semplice: è giusto o no?

Se, invece, ci si chiede “per chi?” allora non si sta facendo politica. Solo personalissimi, fottutissimi interessi.

Anche da noi c’è qualche finestra rotta da cui tira una brutta aria.

Ed io, oggi, mi sono guardata intorno e mi sono chiesta che faccia abbia il giusto equilibrio. Ammesso che abbia una faccia.

Ma ho visto le solite facce di bronzo e altri volti un po’ spaesati.

Qualcuno mi ha chiesto: “E adesso, cosa succederà?”

“E che cazzo ne so”,  ho risposto io.

Però una cosa la so: le elezioni sono belle, giuste e democratiche. Basterebbe che nessuno poi le vincesse.

Perché se continua così, per questioni di competenza territoriale, le prossime si terranno su Youporn.

A fior di pelle

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E’ un novembre che indossa il vestito più bello di sempre e i suoi gioielli preferiti.

Qualche nuvola bisticcia per trovarsi centimetri di cielo e il sole arrossisce ancora tutte le sere, prima di tramontare.

Ma in me rimane la voglia d’inverno, di blues dentro, di freddo che schiaffeggia la pelle.

In questo pezzo di universo squilibrato mi ci ritrovo nonostante.

E resto in piedi, anche se la terra trema e il cuore si ferma.

Noi non vogliamo bene al mondo, perché dovrebbe volercene lui?

Così ogni tanto si scuote, si agita, si scrolla di dosso un po’ di roba. E vengono giù case e palazzi. E si sbriciolano chiese e strade.

Ci ingoia a fauci spalancate, che tanto a sbranarci a morsi ci penserà qualcun altro.

Accade e basta. Certe giornate si sorride, altre si sospira.

Poi la vita fa la media e la terra esplode e frana.

Si contano crepe, cocci, macerie. Si raccattano pezzettini di sé sparsi in giro e ci si ricostruisce, ogni volta.

Succede e basta. Certi giorni sorrido, altri smetto di parlare e implodo e frano, mentre nessuno se ne accorge.

Il dentro si ripiega su se stesso come un origami e il fuori metabolizza graffi, tagli e altri lividi.

Io tutta questa sensibilità non la volevo.

Ma ho paura che, se smettessi di sentire così tanto, non sentirei più nulla.

Così mi alleno a riporre, all’occorrenza, il cuore nell’apposita custodia e a farmi l’epidermide spessa e dura come il cuoio.

E ogni volta è corazza, per non sentire la carne che trema e pulsa e tutte queste schegge a fior di pelle.

Da disarmante a disarmata ad armata fino ai denti.

Ostinata come sono nel chiudermi in certe ragioni o dentro un ruvido carapace.

Ora voglio solo proteggermi dal rovinoso ruzzolare del pianeta e aspettare il freddo, pungente e pulito.

Starmene con le mani in tasca e sentirle vuote, mani e tasche.

Fermare il cuore, come fanno i polpi, e farlo riposare un po’.

E mentre fuori costruisco ponti, dentro rinforzo muri che sono franati.

Con calce viva e malta forte. Per reggere il tutto, per durare nel tempo.

Perché non è con le parole che si aggiustano le cose. E’ bene ricordarmelo, ogni tanto.

Perché c’è già troppa roba che tentenna e noi siamo solo ospiti. E’ bene ricordarselo, ogni tanto.