Come Dio comanda

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Ho cercato le parole per giorni, ma non mi venivano.

Rosicchiavano le notti, corrodevano i pensieri e poi, chissà perché, si dileguavano tra i grovigli della mia coscienza.

La coscienza, appunto.

Sulla faccenda dei medici obiettori e sulle donne che continuano a morire di parto ho provato quel ragionevole schifo che ogni essere ragionevole non può non provare e ho trattenuto il fiato.

Ma i pensieri impiastricciati di silenzio diventano tormento.

E allora, a costo di scrivere parole arcigne e per niente gentili, voglio dire come la penso.

Penso che ci siano due tipi di medici: gli obiettori e quelli con una coscienza.

E penso anche che se uno vuole fare il ginecologo ed è cattolico, per cui l’aborto confligge con la sua personalissima morale, dovrebbe scegliere un’altra specializzazione e fare l’ortopedico, ad esempio. O il dentista. Oppure andare a lavorare in una struttura privata.

Ma se vuole il posto pubblico, allora deve adattarsi a fare tutto ciò che lo Stato assicura per i suoi cittadini, aborto compreso.

Essere come si è non è un alibi sufficiente nè una filastrocca credibile, considerando professione e circostanze.

Delegare e discolparsi, scaricare il barile e passare la mano, obiettare e vedere la donna come una macchina da procreazione perchè così Dio comanda, è un diritto che diventa un abuso se viene meno il dovere di assistenza.

E’ come se un medico ateo si rifiutasse di visitare una suora o un dottore leghista di operare un extracomunitario.

Dov’è la misura? Perché non voglio rassegnarmi all’idea che non ci sia.

Non voglio che un medico cattolico, oltre alla tessera sanitaria, mi chieda anche il certificato del parroco che attesti la mia moralità ed il rispetto di tutti i comandamenti.

Certe recriminazioni sono, per me, prive di logica. Certe omissioni, colpe senza rimedio.

E le parole del dopo, che grondano di retorica petulante, mi smuovono pensieri feroci ed amarissimi.

Perché un medico non può impersonare Dio e un paziente non può essere ad immagine e somiglianza del medico.

Un paziente é solo un povero cristo che vorrebbe continuare a coniugare i verbi al futuro.

Io vorrei che ognuno fosse libero di credere in ciò che vuole: di mettere al mondo dei figli, di scegliere di non averne, di sposarsi in Chiesa o di fornicare nel peccato.

E che un medico, nell’esercizio pubblico della sua professione, fosse guidato non dal senso di colpa, ma da un briciolo di buon senso.

Ecco, così mi piacerebbe che fosse il mio e l’altrui mondo.

Ma intanto.

Mutatis mutandis

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“Come stai?”

(Ho un non so che. Che arriva e preme e stringe e se ne sta lì, poggiato sopra una tempia. Ho pensieri senza punteggiatura e ingranaggi che si vedono da fuori. E se sono fatta così è perché mi sono costruita con ciò che ho trovato a disposizione. Petali di margherita e gambi vestiti di spine. Sono questo e quello. Di giorno turbino dentro porte girevoli e la sera appiccico finali alternativi sui libri di favole. Così, per imparare ad andarci piano coi desideri, ché non sempre il cielo è blu Matisse e le nuvole bianco Magritte. Ora, ad esempio, vorrei essere in un posto lontano. Un posto che conoscono in pochi e in cui i pensieri possano distendersi, quasi fossero ali. Oppure a Parigi, per passeggiare tra le strade di Belleville con il signor Malaussène e dirgli che anche io, a volte, mi sento un capro espiatorio. O a Macondo, per prendere un caffè con il  colonnello Buendía e dirgli che anche io, a volte, mi sento davanti al plotone di esecuzione. Ma mi accontenterei anche di uno scoglio, tipo quello dove va a sedersi Montalbano quando gli girano i cabbasisi. Perché certe volte penso che quel cinese deve aver avuto qualche buona ragione per suggerire di sedersi ad aspettare. Ed io allora aspetto, lungo la riva del fiume, tra uno sbuffo e uno sbadiglio. Tanto, ormai lo so. Se sono gentile avanzo 3 caselle. Se mi faccio in quattro, avanzo altre 7. Poi, appena apro bocca, torno al punto di partenza, come nel gioco dell’oca. Allora mi siedo, mi ammutolisco, annuisco sorniona come se avessi capito tutto e aspetto di diventare ciò che sarò. Intanto fuori piove, anche se non dovrebbe. Respiro ancora un po’ quel frammento di sonno che mi é rimasto incastrato tra le ciglia e lascio gli affanni del quotidiano al loro prevedibile incedere. Inciampo su fili troppo logici e su spigoli lasciati lì ad ammorbidire. Ho la pelle sciupata da promesse non mantenute e da scuse propinate a vuoto, incise senza anestesia. Ma siccome sto cercando di fare del mio meglio, non posso avere anche la pelle liscia e levigata. Imperfetta io, imperfetto il resto. Perché, in fondo, questa cosa della perfezione ha davvero scassato la minchia.)

“Benissimo, grazie.”

Sopra le righe

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Sono fatta di parole, graffiata da virgole, segnata da punti e impastata con tutto ciò che c’è dopo un punto e a capo.

Ma amo gli accenti e quel loro impertinente e sovversivo sfuggire sopra le righe.

Perché sono luoghi incredibili, gli spazi fuori dai margini.

Odorano di inconfessato, di indiscreta discrezione, di ombre che arrivano da chissà dove.

Tra le righe, in uno spazio ristretto e rassicurante, tutti fanno quello che fanno tutti per non sentirsi stonati nel mondo degli altri.

Fuori dalle righe, invece, ci si traveste.

Ci si toglie i vestiti grigi e anonimi e si indossano i costumi di scena.

Un tizio fuma John Player Special solo perché il pacchetto nero si abbina alla sua giacca nera, una tizia mette le extension effetto shatush alle ciglia, una ministra fa una campagna sulla cicogna ed altri uccelli.

Fuori dagli schemi, fuori dal coro o, semplicemente, di fuori.

Essere Frusciante, però, è un’altra cosa.

Sopra le righe si sta bene solo se prima si è stati bene dentro.

Altrimenti si corre il rischio di sporgersi troppo di sotto e di precipitare giù.

A me piace riempire gli spazi e, alle righe, starci sopra, sotto, dentro, in prossimità.

Sono come un capriccio di matita che si muove su una pagina bianca.

Per qualcuno un universo da indagare, per qualcun altro un difetto da non perdonare.

Per alcuni un sentiero spianato lungo il quale si incontrano rose ed altri prodigi, per altri un percorso tortuoso lungo il quale si incontrano spine ed altri mostri.

O sconcerto o stupisco.

Perché ho prepotenze di bambina e pretese di donna.

Perche uso parole aggraziate come una ballerina da carillon o violente come un rossetto sbavato.

E perché, a volte, esco fuori dalle righe e me ne sto lì, ai margini.

Non perche non sappia cosa fare. Lo so, per questo me ne sto ai margini.

Un po’ come quando da piccola, giocando a nascondino, nascondevo solo la testa.

Cosi ora. Mi nascondo, ma solo perchè spero di essere trovata.

Non sono come le altre?

Me lo hanno detto in diversi, diverse volte. E non sempre voleva essere un complimento.

Ma catalogarmi non è facile. Mettermi in riga, nemmeno.

Quindi neanche a tentarci, tanto sarebbe fatica sprecata.

A quelli che lo fanno, ci tiro direttamente una riga sopra.

A quelli, invece, che dicono di leggermi tra le righe, consiglio di leggerne un paio, ogni tanto.

Il pelo nell’uovo

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E’ così difficile spiegare.

Come se le parole fossero le polveri di un alchimista e, se sbagli la formula, le ritrovi sparpagliate ai piedi di chi ascolta.

Chi ascolta poi le raccoglie, le travisa, le distorce, le stravolge e te le vomita addosso cariche di significati che non volevano avere.

O sotto forma di risposte a domande che tu non hai mai posto.

Ormai, però, la frittata è fatta.

Uova, sale, pepe nero e un po’ di pecorino o parmigiano grattato.

Gli ingredienti sono sempre gli stessi, ma il sapore cambia ogni volta.

Basta aggiungere un pizzico di malinteso o malafede quanto basta.

E poco importa se racchiusa in quel fragile guscio ci sei tu che all’improvviso vieni sbattuta, strapazzata e buttata a sfrigolare nell’olio caldo.

Perchè chi ascolta, ascolta solo ciò che vuole ascoltare.

E trova, tra parole e virgole e tra albume e tuorlo, esattamente quel che vuole trovare.

Il pelo.

Diventa così un dialogo tra sordi, una conversazione senza né capo né coda.

Il pelo viene analizzato, esaminato, spaccato in quattro.

Poi, con un miracoloso triplo carpiato, la frittata viene rigirata e servita con un appetitoso contorno di ripicche e musi lunghi.

Io non so farlo.

Rigirare le frittate, intendo.

Perchè richiede accurata pianificazione, testarda determinazione e mente da scacchista.

Io procedo invece per tentativi ed errori.

Non peso ingredienti, non calcolo sentimenti e non misuro parole.

Le uova le rompo e basta. Al massimo, le cucino alla coque.

E con le provocazioni altrui, quelle che grondano di dietrologie vuote e appiccicose, poi ci incarto i gusci.

Perché le colluttazioni mentali mi piacciono quando sono ispirate, costruttive, equilibrate.

E ci provo sempre, fra un fraintendimento ed un equivoco, a recuperare un frammento di fiato e a chiarire l’incomprensione.

Ma i territori della mia pazienza sono mutati col tempo.

E quando i cercatori di pelo nell’uovo non mi lasciano scampo, i confini si restringono come un maglione dopo un incauto lavaggio.

Così mi accartoccio dentro il silenzio.

Le mani a tappare la bocca e le orecchie e gli occhi a sbirciare quel poco che posso.

Ché le persone, a volte, sono come la sorpresa dell’uovo di Pasqua: ti aspetti meraviglie e cose preziose e trovi invece portachiavi e chincaglierie di poco valore.

Ma che si pretende da un uovo, cioè da una cosa fatta col culo?

Carta e penna

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Il come, a volte, dice più del cosa.

Perché è nel come che si annida la bellezza.

E nessun piccì, smartphone, messaggio, whatsapp o mail scritta in times new roman corpo 12, potranno mai restituire la bellezza di una lettera scritta a mano.

La magia di un foglio bianco, il fascino di un percorso fatto di inchiostro e pensieri, l’intimità di una scrittura a cui affidare cose che all’orale non sono permesse.

Da anni non ricevevo una lettera così.

Genuina, scritta a mano, con carta e penna. Una di quelle da toccare, annusare, spiegazzare e stringere al cuore.

In pochi mesi ne ho ricevuto due.

La lettera del mio amico Tiziano è stata lucida, come solo un pensiero lucido sa essere.

Perché lui prima ha pensato cosa scrivermi, poi lo ha lucidato ben bene e infine lo ha messo su carta.

E per me ha usato la carta più pregiata, l’inchiostro migliore e il tratto più indicato.

Una lettera di grande fascino e bellezza.

Un foglio che risuona di virgole, accenti, motivi e sensi.

Quel foglio poi è stato piegato, imbustato, affrancato e spedito.

Ho amato aprire la busta ed iniziare a leggere. E poi rileggere. E rileggere.

Lui che mi racconta, io che mi ritrovo.

Oggi ho ricevuto la lettera di Roberto.

Che scrivesse bene, con tastiera e monitor, lo sapevo già.

Da quando ho iniziato a seguire il suo blog https://willyco.wordpress.com/  affascinata da una scrittura elegante e piena di grazia, da uno stile aulico e raffinato, da pensieri che corrono veloci, al pari delle dita sui tasti.

Nella lettera che mi ha scritto, con carta e stilografica, i pensieri sono invece rallentati, distesi, notturni, intimi.

Le parole si sgranano lente e irregolari e l’inchiostro nero scivola sul foglio bianco come una linfa vitale.

Una pagina vuota che, dopo poche righe, diventa fertile e partorisce emozioni, stati d’animo, parole senza mura, ma piene zeppe di nascondigli.

Ho tenuto per un po’ quei fogli tra le mani e ho passato i polpastrelli sulle lettere, quasi fossero in rilievo.

Quasi fossero il profilo di Tiziano e quello di Roberto.

Quasi a voler restituire loro, con una carezza, le emozioni che quei fogli mi hanno regalato.

Il regalo più grande è stato il tempo che mi hanno dedicato.

Perché in un mondo digitale, fatto di sensazioni che corrono veloci, lo stupore viaggia ancora su carta.

E se il cosa scrivere è alla portata di tutti, la differenza, alla fine, sta nel come.