Il moralismo del cappero

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Le cose stanno così.

Ci sono cose che mi stanno a cuore. Altre che non mi stanno bene. Nel regno del moralismo, le due cose coincidono.

E, in un’estate in cui soffiano venti di guerra e si mozzano teste, il moralismo ha attecchito un po’ ovunque, come la pianta del cappero.

Chi moraleggia è salito sul piedistallo e ha iniziato a predicare su una cosa a caso. A buon mercato, in maniera spicciola, un tanto al chilo, tirando in ballo parole come etica, decoro, dignità e blablablà.

E, di fronte all’orrore di una decapitazione o davanti ad un paio di tette, chi moraleggia si è poi indignato quasi allo stesso modo.

Questa storia del topless del ministro Giannini, lo ammetto, mi ha appassionato come un documentario di Giacobbo sull’accoppiamento dei conigli nani. Anche la storia del bikini della Boschi, devo dire, è stata entusiasmante quanto un film kazako in lingua originale.

Spiegatemi, perchè io non ci arrivo.

Spiegatemi perchè la credibilità politica di un ministro di sesso maschile che ruba, corrompe, va con le prostitute o con le minorenni, non viene messa in discussione e se un ministro donna mostra un capezzolo allora non è più degna di ricoprire un ruolo istituzionale.

Spiegatemi perchè la notizia che le donne hanno le tette e le ministre pure deve diventare la notizia più commentata da giornali e telegiornali.

E se è vero che ci sono comportamenti privati che non sono accettabili da chi ci rappresenta, andare in spiaggia in topless non mi pare una cosa così scandalosa.

Di sicuro meno scandalosa di tanti parlamentari vestiti o di chi si è precipitato a comprare il giornale per guardare meglio le tette e definirle poi tettine, mezze tette, senza tette, tette mosce, tette cadenti.

Talvolta, l’ipocrisia dei moralisti è superata solo dalla loro profonda stupidità.

L’ipocrisia di chi non ha speso una parola sul cattivo gusto di quelli che, le tette, le hanno fotografate e dopo pubblicate. La stupidità di chi, per anni, ha praticato onanismo davanti al calendario della Carfagna e ora si scandalizza se una donna che ricopre cariche pubbliche prende il sole in topless.

Le cose vanno dette come stanno.

E le cose stanno così. Che un ministro è un ministro e andrebbe attaccato o giudicato per quello che fa come ministro. Che chi prende certi problemi “di petto” finisce solo per fare del moralismo del cappero.

E allora, se proprio si deve fare del moralismo del cappero su ogni cosa, mi auguro che il cappero sia, almeno, di Pantelleria.

Venticinquemilacinquecentocinquanta giorni

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E poi arrivano i ricordi. Chiudi gli occhi e li senti, dentro al cuore. Che quello è proprio un bel posto per tenerci i ricordi.

Ricordo che, quando ero piccola, lei mi faceva le scarpe da notte ai ferri. Ogni inverno, un paio di babbucce colorate di lana calda e morbida.

Ogni domenica, lui tirava fuori dalla tasca del vestito buono le mentine, quelle nella scatola di latta. Per viziarmi bastava quel gesto, silenzioso e complice.

Lei ora ha 90 anni e l’Alzheimer le ha sbiadito ogni ricordo.

Lui, di anni, ne ha 92 e non ha mai smesso di riempire i vuoti di memoria di lei.

I mie nonni, fra pochi giorni, festeggeranno 70 anni di matrimonio.

Una vita intera trascorsa insieme. Dal primo anniversario, quello delle nozze di carta, fino al settantesimo, le nozze di titanio.

Perchè da un sentimento delicato e fragile come un foglio di carta il loro legame, giorno dopo giorno e anno dopo anno, si è rafforzato sempre di più fino a diventare indissolubile e solido. Come il titanio. Forte e straordinario. Come i Titani.

Un’unione rara e delicata, la loro. Fatta di sentimenti che leniscono assenze, di affetti che alleviano dolori, di emozioni che colmano distanze.

Settanta anni di matrimonio sono 25.550 giorni.

Settanta anni di matrimonio sono un inno alla costanza, al sacrificio e all’amore vero. Tanto vero oggi quanto lo era settanta anni fa.

Li osservo con gratitudine e mi commuovo.

Li guardo e capisco che il senso della vita, forse, è tutto lì, celato nella semplicità dei loro gesti, nella dolcezza delle loro carezze e in quel bacio che si scambiano, ogni sera, prima di andare a dormire.

Sguardi che parlano di vita vissuta, rughe attorno agli occhi che raccontano di loro.

E credo non ci siano libri più belli degli occhi dei miei nonni.

Venticinquemilacinquecentocinquanta sono le pagine che hanno scritto insieme, fino ad ora.

E domani? Domani chissà.

Cercasi sinonimo disperatamente

Studio di orizzonte marino con pioggia

Non esistono più le mezze stagioni e ultimamente neppure le stagioni intere.

Neanche la lingua italiana se la passa tanto bene. Giace agonizzante, ferita gravemente dai luoghi comuni, dai neologismi e dai tormentoni giornalistici.

Da quando poi, piovono bombe, ha chinato del tutto il capo. Si è definitivamente arresa all’avanzare di certe parole senza senso, all’uso di figure retoriche che, se usate male, diventano figure di merda.

Perchè le cose, dacchè esistono, hanno un nome. Lo hanno sempre avuto.

Una volta, ad esempio, quando il meteo non era ancora un’app e ci si affidava ai proverbi, al rosso di sera, alle previsioni di Bernacca e all’anticiclone delle Azzorre, le forti piogge si chiamavano temporali.

Oggi, invece, bombe d’acqua. Oggi siamo bombardati da agghiaccianti bombe d’acqua.

Arriva un momento in cui la moda dice che no, che adesso il nome è un altro. Funziona così. E allora nuovi nomi si autogenerano e si diffondono in maniera incontrollabile. Proprio come l’imbecillità di chi li usa.

E il neologismo diventa, quasi, la maschera utilizzata per nascondere il vero problema, quello della mancanza di programmazione, di manutenzione, di messa in sicurezza del territorio. Una cialtroneria linguistica usata per coprire certi scempi ambientali.

La verità, si sa, sta nel mezzo. Certi neologismi, invece, la spostano sempre un po’ più in là.

E la verità è che la pioggia, prima o poi, sarebbe diventata il detonatore cha avrebbe fatto esplodere le bombe ad orologeria disseminate qua e là, dall’uomo.

La verità è che le bombe d’acqua non sono dei gavettoni che ci piombano addosso all’improvviso. Come se prima non avesse mai piovuto, come se ci fosse una guerra delle nuvole contro di noi, come se dovessero, da un momento all’altro, arrivare anche gli artificieri.

Ma non può piovere per sempre. Lo disse pure Noè.

E quando smetteranno di essere bombe d’acqua spero che torneremo ad usare i sinonimi. Torneremo a chiamarli temporali. O nubifragi. Oppure alluvioni.

E torneremo a chiamare bombe solo quelle vere, quelle al tritolo.

Io, nel frattempo, continuerò a chiamare bombe le uniche che preferisco. Quelle alla crema.