E sei lì, in macchina, con la radio accesa e parte una canzone.
Non li decidi i ricordi. Fanno come gli pare, anche loro.
E’ bastato un riff di chitarra per farli venire su, ad uno ad uno. Come fili di perle tirate fuori da un cassetto.
L’odore del sugo di mia nonna, il rumore dei piatti fondi posati su quelli piani, le fette di auguria fresca, la Coppa Rica all’amarena, i libri, l’ansia e i ripassi dell’ultimo minuto. I London Beat, i R.E.M., i Guns N’Roses e i Litfiba.
Ricordi e canzoni e storie e frasi e visi e sorrisi di quella sciroccosa estate degli anni ’90.
Quella in cui diventai matura, come un pomodoro buono per la conserva.
“Illustri il candidato il senso e il valore del seguente brano…”.
A mo’ di cintura, mi ero legata in vita una cartucciera di stoffa con quasi cinquanta temi su Montale, Quasimondo e Ungaretti. Sui tipi un po’ ermetici come me, insomma.
Uscì Leopardi.
“Che cosa é la vita? Il viaggio di uno zoppo e infermo che con un gravissimo carico in sul dosso, per montagne ertissime e luoghi sommamente aspri, faticosi e difficili, alla neve, al gelo, alla pioggia, al vento, all’ardore del sole, cammina senza mai riposarsi dì e notte uno spazio di molte giornate per arrivare a un cotal precipizio o un fosso e quivi inevitabilmente cadere“.
Ci sono domande che a 18 anni non ti fai. E che a 40 non hai ancora trovato la risposta.
“Cosa é la vita?” é una di queste.
Ma Leopardi, si sa, era uno dall’anima sensibile, malinconica e disperata.
Uno che si ripiegava su di sé, insisteva sulle domande e si imponeva di rispondere.
Uno che 28 anni si era già interrogato e risposto sulla vita, la morte, la natura e il destino dell’uomo. E aveva aggiunto alla propria, la sofferenza del mondo.
E siccome uno così viene bollato come pessimista, quel giorno buttai giù quattro colonne di foglio protocollo sul pessimismo cosmico leopardiano.
Oggi, forse, scriverei: Che cosa é la vita? Il bello della vita è che non sai mai cosa ti tocca. Il brutto, uguale.
Fine del tema.
Il giorno dopo ci fu la versione di greco. Una lettera di Epicuro, scritta all’amico e discepolo Meneceo, intitolata: “La vita è felice solo se è saggia, bella e giusta“.
Era una lettera sul piacere. E, per piacere, Epicuro non intendeva quello dissoluto del fisico o quello effimero che dà una tavola riccamente imbandita.
Per lui il piacere era l’ equilibrio interiore, il non soffrire nel corpo, il non essere turbati nell’anima.
Per me invece, che sono poco epicurea, il piacere é semplicemente il contrario del dovere. Piacere e dispiacere, poi, arrivano sempre quando meno te li aspetti. Spesso, dallo stesso posto.
Italiano e filosofia erano le due materie che avevo scelto per l’orale.
E dopo una notte passata sui libri, aspettando la luce che arrivava da dietro le tende, il 4 luglio alle 8,30 in punto, ero seduta davanti ad una commissione di perfetti sconosciuti a parlare di scapigliati milanesi e poeti decadenti, di criticismo kantiano e nichilismo nietzschiano.
Di quel giorno ricordo il senso inebriante di libertà.
La convinzione di aver finito, quando in realtà era solo l’inizio.
E la certezza che, da lì a poco, sarei partita per le Baleari con i miei compagni di classe e che il mondo, dopo, non sarebbe più stato lo stesso.