E’ complicato

Il motto della mia casata è: come è difficile farla facile.

Nello stemma araldico si sono cinque palle, un vestito a pois e il sottotitolo in oro sul gonfalone è “cu mangia fa muddichi”, per il ramo siculo della mia famiglia.

D’altronde è molto complicato vivere con una testa complicata che fa pensieri complicati e che talvolta annega, con discreto piacere, in cose di poco conto.

Perché ho il talento innato di appassionarmi alle quisquilie, alle inezie, alle sciocchezze che più sono sciocche più io le approfondisco e le sviscero e mi ostino e mi tormento.

Complico cose semplici, ma riesco a complicare anche quel che appare di per sé già complicato.

Per qualche assurdo corollario alla legge di Murphy, a me quel che cade, cade male e si rompe, quel che cerco non si trova, quel che aspetto non arriva, piove appena esco dalla parrucchiera, smaglio i collant appena messi, la caldaia va in blocco quando sono sotto la doccia, insaponata dalla testa ai piedi.

E poi faccio sempre tanti ragionamenti, ho i miei pensieri, fissazioni, fisime, ubbie, cazzi e mazzi.

Qualcuno, ogni tanto, mi fa anche dei complimenti per questo, non rendendosi conto che una mente complessa e contorta è un po’ come avere delle grosse tette: tutti te le ammirano, ma nessuno sa quanto sia scomodo andarci in giro.

Io ci provo a semplificarmi l’esistenza, a limare e alleggerire, a lasciare che le cose vadano dove hanno deciso di andare, indipendentemente da me.

Ma ogni volta che imbocco una strada corta e diritta o prendo una scorciatoia, puntualmente mi perdo e mi ritrovo in meandri senza direzione, in grovigli senza capo né coda, in dedali senza uscita.

Come quando lo scorso anno andai a fare la Merry walk, una camminata natalizia di 7 km tutta in salita sulle colline versiliesi e nel mezzo del cammin mi ritrovai sulle Alpi Apuane, ché la diritta via era smarrita.

E pensare che avevo partecipato solo perché all’arrivo ci sarebbe stato da mangiare e da bere e soprattutto perché il ritorno sarebbe stato tutto in discesa.

La cosa si può riassumere così: sono più ingarbugliata del participio passato del verbo splendere.

Servirebbe un tutorial che mi insegnasse a semplificare. O a impastare le robe contorte nella torta di mele.

Inoltre vorrei aggiungere un altro paio di palle al mio gonfalone e cambiare il motto della mia casata in “Ma che volete da me?”

Quindi, se interessati e con requisiti, andate da mio padre e chiedete la mia mano.

My two cents

Mi sono concessa una piccola pausa, di quelle che giovano al cuore e alla mente e sono tornata con pezzetti di mondo nella valigia, parole in una lingua che mi diverte e ricordi da sommare a quelli che già ho in testa.

Nulla di che, ma andare via per qualche giorno e rifugiarmi in altri luoghi mi è sembrato comunque un buon modo di farmi un po’ di bene.

Ho percorso strade assolate e brulicanti di vita, sono passata davanti alla friggitoria di egiziani mentre sistemavano sul banco ravioli di carne fritti, poco più in là una ragazza parlava in cinese ridendo al telefonino, sull’altro marciapiede una coppia di latini ballava una rumba mentre un ragazzo indiano girottolava in monopattino con un coetaneo russo, proprio quando una ragazza araba sussurrava qualcosa ad un bambino che giocava con un peluche.

Avevo fatto solo pochi passi e sentito già tante voci: ero in Times Square e, senza saperlo, ero al centro del mondo.

New York è la città in cui ci si avvicina senza conoscersi e ci si scambiano nomi, strette di mano, confini, risate e qualche chissà.

Poi si torna e il cuore non è esattamente lo stesso.

Sfumano i suoni, i doveri e anche le ire.

Rimangono mozziconi di parole, l’entusiasmo, lo stupore e centinaia di foto nostalgiche da guardare e riguardare. L’inverno sarà lungo, ma me le farò bastare.

Ho aspettato di salire al centoduesimo piano dell’Empire proprio come fanno i bambini. Ho guardato che ora fosse almeno dieci volte, ho sperato che il sole tramontasse, che lo skyline si illuminasse e che la gente smettesse di andare e venire.

Poi, finalmente, le porte dell’ascensore si sono aperte e hanno dato vita ad uno spettacolo che mi ha mozzato il fiato.

A bocca aperta e cuore pieno ho guardato il mondo dall’alto in basso per un po’: come in una puntata di Gossip Girl ho fatto shopping sulla Fifth Avenue, mi sono seduta su una panchina di Central Park con Woody Allen, ho mangiato un croissant davanti alla vetrina di Tiffany con Audrey Hepburn, ho guidato un taxi di notte insieme a Robert De Niro, discusso con uno spacciatore del Bronx come in Carlito’s Way e mi sono arrampicata sulle scale antincendio del Greenwich Village dopo essere andata da Magnolia Bakery a comprare cupcake.

Proprio come in un film, a questo ho pensato tutto il tempo.

Quando sono entrata al MoMa avevo il biglietto in mano e il sorriso in bocca.

Mi sono emozionata con la Notte Stellata di Van Gogh, ho sognato ad occhi aperti guardando le Ninfee di Monet, ho pianto davanti agli Amanti di Magritte e mi sono interrogata di fronte alle linee geometriche del quadri di Mondrian.

Poi, per qualche ora, ho passeggiato su e giù per le rampe a spirale del Guggenheim Museum e, davanti ai quadri di Kandinsky, sapevo di essere nel posto più bello del mondo.

Proprio come in un sogno, a questo ho pensato tutto il tempo.

Con fatica ora sono tornata alla solita routine, incastrata tra una sedia ed una scrivania.

Purtroppo, qualche giorno prima di andare negli Stati Uniti, gli Stati Uniti cancellavano diritti che si ritenevano acquisiti, considerando di fatto l’aborto una forma di omicidio, ma permettendo a chiunque di uccidere con armi comprate in libera vendita.

Così, anche dalle nostre parti, si è riacceso il dibattito sulla legge 194, sulla questione dell’obiezione di coscienza e sulla libera volontà della donna e il vento che soffia non sembra annunciare nulla di buono.

Era il 2017 quando, guardando le prime puntate de “Il racconto dell’ancella” che descriveva un mondo in cui i diritti delle donne venivano negati dalla presa di potere di una cultura patriarcale e teocratica, azzardavo che di distopico in quella serie ci fosse poco e che si trattava di una profezia purtroppo realizzabile.

Ed eccoci qua.

I segnali, guai ad ignorarli; i diritti, guai a smettere di rivendicarli.

Ma questa è solo la mia opinione e, come tale, vale giusto due centesimi (di dollaro, of course!).

In palette

Imbrattare i pensieri di colori e luci e ombre è solo una delle mie tante fisime.

E nemmeno la più grave, tutto sommato.

Li accantono in una zona neutra e spoglia della mia mente finché non diventano variopinti, secondo una logica cromatica tutta personale.

Il bianco è il colore della neve, delle lenzuola stese al sole, del porro, delle strisce pedonali, della perla dentro l’ostrica, di un viaggio in Grecia, dei buoni propositi, delle cose che funzionano, degli incastri che si incastrano e del cuore pulito di Matteo.

Il nero è quello degli pneumatici, dell’aria che pesa, dei pensieri che non vorrei, dell’umore del lunedì, dei cappelli degli ebrei ortodossi, della periferia cementificata, del riso venere e del bagno senza finestra.

Il rosso mi piace sulle unghie e sulle labbra, sulle fragole d’estate e sui peperoni d’inverno. Mi ricorda la prepotenza, la confusione, i libri imbrattati, il sugo che faceva mia nonna, le cose che mancano e le cose in eccesso.

Se il mio respiro è quieto e taciturno allora è verde smeraldo, come le foglie che calmano e la musica dei Green Day che consola. Quando si fa più affannoso allora è blu pervinca, come la paura, la profondità, le coincidenze, gli imprevisti e la carrozzeria di alcune Alfa Romeo degli anni ’70.

Blu che a volte sembra nero, ma è blu.

Con il blu sta bene il giallo che è il colore sgargiante e vistoso degli evidenziatori, degli scuolabus, dei capelli delle bambole, del Portogallo, della gelosia, delle ansie di cui vorrei fare a meno, dei gomitoli di lana, del destino che arriva e di una pentola a pressione che borbotta.

Le tonalità del rosa no, non mi piacciono. Il lilla ha un colore indeciso che somiglia a lividi sbiaditi, a promesse infrante, alle foto di chiunque fatte ovunque. Il malva ha una sfumatura pallida come certi turisti del nord e il viola sta bene solo sulle melanzane e sugli abiti dei vescovi.

Ci sono i ricordi d’infanzia nelle sfumature dell’arancione. Ci sono persone e altre età, la fine della scuola, la caccia alle lucertole, il risotto con la zucca, i dormiveglia e i gigli di Mondrian. L’albicocca chiaro è il colore dei pensieri che si lasciano abbracciare, l’ambra quello delle parole che pesano, senza gravare.

Come Picasso nel suo periodo blu, io adesso sono nel mio periodo ocra.

La mia palette va da pensieri tenui e lievi come il beige ad altri scomposti e prepotenti, color ruggine. Certe durezze aspre e ruvide color testa di moro sono addolcite da pennellate di marrone chiaro, con sfumature di biscotto e caramello.

Sono violenza e dolcezza, come il Chianti d’autunno.

Ogni tanto mi fermo ad osservare questa tavolozza impazzita di colori, ignara e felice e senza capirci nulla.

Sarà per questo che ne scrivo, per mettere tutto nero su bianco.

E ora lascio la parola a Freud.

La meta è partire

Il mio posto nel mondo è su un aereo, lato finestrino.

Io che trattengo il respiro, il cielo che sembra un acquerello e le nuvole che hanno la forma di un drago.

Ho con me una valigia e la curiosità ardente di Lucio, quello delle Metamorfosi di Apuleio, che in Tessaglia si spalma una pomata magica e si ritrova trasformato, per errore, in asino; un cuscino da viaggio e i dubbi inquieti di Telemaco mentre guarda il mare e scruta l’orizzonte nella speranza di vedere comparire, un giorno, il padre Ulisse; gli occhiali da sole e il bisogno avido di vagare senza meta per le strade della città come Encolpio, il protagonista del Satyricon di Petronio; le cuffie per la musica e la voglia testarda di attraversare l’oceano e perdere la strada come Cristoforo Colombo.

Dopo questo tempo sospeso da tempo, niente di meglio di un bel sogno per iniziare l’anno: decolli, paesaggi e atterraggi, curiosare e annusare e ricordare, cose da vedere, strade da percorrere e gente da osservare, chilometri di silenzio seguiti da chilometri di parole, insomma viaggiare e sentirmi a casa, oppure stare a casa sapendo di poter partire.

Certe possibilità sono lussi che mi piacerebbe avere di nuovo.

E siccome un viaggio inizia sempre con un primo passo, ho prenotato un volo per gli Stati Uniti.

L’ultima volta che sono stata a New York c’erano ancora le torri gemelle, i mondiali di calcio e Clinton che nascondeva una stagista sotto la scrivania.

Ricordo che quando sono scesa dal taxi, mi sono fermata a guardare il fumo che usciva dai tombini di Manhattan ed ho pensato di essere dentro un film. Poi ho alzato lo sguardo, c’era il sole che tramontava fra i grattacieli e ho pensato che fosse la città più bella che avessi mai visto.

E’ un regalo quello che ci siamo fatti la mia famiglia ed io, quell’anno. Un po’ di Stati Uniti, un po’ di Canada e una finestra sul mondo che a un certo punto si sente il bisogno irrefrenabile di aprire.

Abbiamo persino partecipato ad un matrimonio americano: io ero una delle dieci damigelle della sposa, tutte vestite con un’americanata di abito fucsia, con scarpe fucsia, con un fiore fucsia tra i capelli ed un trucco sobrio come quello di Moira Orfei.

Poi si torna e il cuore non è più lo stesso. Restano le foto di skyline, di parchi e di cascate da guardare con gli occhi della prima volta anche se è la millesima. Stampe da incorniciare e da riguardare ogni tanto. Un piccolo richiamo, come certi vaccini.

E’ un regalo quello che ci faremo una mia amica ed io, quest’anno. Un po’ di compleanni da festeggiare, un po’ di risate da recuperare e quella finestra sul mondo che a un certo punto si sente il bisogno irrefrenabile di riaprire.

Perché è ora di tornare a viaggiare, questo è certo. Ma è anche tempo di priorità, tipo la salute.

Nel frattempo, ripasso le basi da the cat is on the table a open the window, ma non vedo l’ora di essere seduta su una panchina di Central Park, guardarmi intorno e finalmente dire “first reaction: shock!”

Intanto vado per la mia strada che è già un bel viaggio.

Non so, dunque parlo

L’incompetenza deve pur avere un rumore.  Secondo me di vetri rotti, di freni stridenti o di nasi soffiati.

Sicuramente avrà anche un odore. Sa di melma, di pesce marcio e di stanze sempre chiuse.

La riconosco nelle facce di chi si sente portatore di verità assolute, di chi si crede depositario dello scibile umano, di chi non sa nulla, ma appena può si assegna una laurea e una buona dose di sapienza.

I pulpiti sono fatti di sé e di troppe parole.

E a me quelli che sermoneggiano con toni di solenne superiorità, se una volta mi provocavano sbadigli, adesso mi fanno venire due palle così che mi ci vuole la carriola.

Perché attorno a me, ultimamente, è tutto un pullulare di esperti di medicina, di virologia, di sanità.

L’argomento non è importante, loro in quanto esperti discettano su ogni cosa e tramutano opinioni personali in principi assodati, spacciano cretinate lette su Facebook per teorie scientifiche e laddove servirebbe silenzio e rispetto, provocano di proposito schiamazzi e crociate.

Confondono la libertà di espressione con l’espressione fuori controllo e con la scusa che in un sistema democratico ognuno è legittimato a dire ciò che vuole, dicono cose di cui non hanno conoscenza, né autorità.

Eppure la presunzione spacciata per competenza fa proseliti perché quel poco che sanno te lo vendono così farcito, confezionato e infiocchettato da fartelo sembrare credibile. Poi togli i fiocchi, apri la scatola e manca il contenuto.

Parlare di quel che si conosce, ecco cosa si dovrebbe fare.

Perché un conto è dire che una cosa piace o non piace o che è giusta o sbagliata.

Ma, ad entrare nel merito di quella cosa, dovrebbero essere solo coloro che l’hanno studiata, analizzata e approfondita, che hanno la competenza, la preparazione e l’esperienza per potersi esprimere.

Ad esempio, su un’opera di Renzo Piano, io al massimo posso avere in giudizio puramente estetico, ma sarei sciocca se mi mettessi a contestare le tecniche di sviluppo di una struttura a guscio.

Semplicemente perché non ho studiato Architettura e nulla so di scienza delle costruzioni, di fisica tecnica e di progettazione.

Eppure quando ho detto che, in tema di salute in generale e di vaccini in particolare, dovremmo affidarci alla scienza e alla ricerca e non ai ciarlatani su internet, un tizio con la laurea triennale in Viticoltura ed Enologia, con tesi sulla vinificazione in anfora, mi ha risposto con astruse teorie sulla modificazione genetica del Dna e alla fine mi ha tacciato di essere stolta e pure incosciente.

Evidentemente quel giorno aveva esagerato con il Cabernet-Sauvignon.

So di non sapere, diceva Socrate.

Cu sapi, sapi e a cu nun sapi, ‘nzignaccilla (chi sa, sa e a chi non sa, si insegna), diceva mio nonno.

Socrate e mio nonno avevano ragione, questo almeno lo so.

Quali sono le altre mie competenze?

So separare gli zampironi senza romperli, dal 1998.

Aria fritta

Anche se ho taciuto, ne ho dette di cose.

Ho trascorso gli ultimi mesi recintata in zone variopinte, dal rosso cremisi al giallo chartreuse, restando a galla come una barchetta di carta.

Ho rincorso la leggerezza dando un nome alle nuvole bianche, regalandomi giornate di vento, di tovaglie blu e di ristoranti sul mare, prendendo il volo verso l’alto, allontanandomi dall’insostenibile pesantezza delle frasi fatte di frittura d’aria un tanto al chilo.

Ho comprato un pc, un tostapane, un frullatore ad immersione, uno spremiagrumi professionale e una friggitrice ad aria per cucinare robe leggere come l’aria fritta.

Ho guardato serie tv turche in turco e israeliane in ebraico, sono entrata in room giapponesi di Clubhouse, ho fatto sogni americani e pensieri in dialetto stretto.

Ho provato affetto per l’equilibrio di Mattarella, tenerezza per i congiuntivi Di Maio, pena per l’inglese di Renzi, fastidio per l’arroganza di Salvini, rabbia per il dilettantismo di Casalino, disgusto per l’incompetenza dei negazionisti, dei complottisti, degli antivaccinisti e anche dei terrapiattisti.

Ho visto tante cose dalla finestra di casa mia, in questi mesi. Le ambulanze sfrecciare, i vicini a spasso con il cane, i podisti improvvisati, l’erba crescere tra l’asfalto, la prima ondata, la seconda ondata, la pioggia cadere a dirotto e il sole morire dentro il mare.

Ho capito che le cose che contano davvero sono quelle che si danno per scontate, che il futuro ha il suono di passi incerti e titubanti, che il presente ha il sapore della speranza e dell’attesa, che gli idioti resistono a tutto, pure alla pandemia.

Ho imparato a trattenere la tosse, a chiamare le paure per nome, a sorridere con gli occhi, a rimanere in silenzio, senza che nessuno me lo insegnasse. E che in Giappone c’è un santuario che viene demolito e ricostruito dai monaci ogni vent’anni, identico a se stesso. Un ragazzo a vent’anni va nel tempio per imparare a costruirlo e ci resta finché non ha imparato tutte le tecniche. Poi, passati i primi venti anni, quando ormai è quarantenne, lo costruisce per davvero, mettendoci tutto il tempo che occorre, cioè vent’anni. Solo quando ne ha sessanta, può insegnare a costruirlo ai giovani che vorranno imparare. Tutto il resto è aria fritta.

Io invece quando non so come fare una cosa, penso a come la farebbe Ryan Gosling al posto mio.

Perché lui lo amo dai tempi di Drive, da quel “Posso parlarti? Non ci metterò molto” che sembrava lo dicesse a me, con quel bomber tamarro color argento e l’aria da matto.

Ecco, se Ryan mi vendesse l’aria fritta, io la comprerei.

Riflessioni di una notte di mezza estate

La Luna nellarte - Figure di notte di Joan Miró

E’ una notte qualunque, grondante d’estate.

L’insonnia mi appiccica e mi spettina e dietro gli occhi chiusi arrivano le storie che mi racconto prima di dormire. Alcune a puntate, altre a ruota libera, tutte senza censure con dentro parolacce e frasi senza senso, ragionamenti e ricordi.

La più ricorrente è quella di lasciare tutto e andare a vedere il mondo, vivere di mojito e tiramisù e morire sotto falso nome.

Non lo farò mai, però ci penso.

Nel frattempo sono andata via per un po’.

Ho spento il computer, staccato spine e contatti e preso un aereo. Ho accarezzato volti e dialetti, visto posti che non avevo ancora visto, camminato lungo strade assolate e cercato l’ombra sotto ulivi e navate.

Ogni sera ho guardato il sole scendere sul mare e il mondo colorarsi di rosso, strizzando gli occhi e allargando il cuore.

Ho spento anche un po’ di candeline perché l’estate, si sa, è la stagione dei compleanni.

Il blog ha compiuto sette anni ed io qualcuno di più.

Mi manca scrivere qui con l’assiduità di un tempo, ma appena posso vengo e semino frammenti di me che qualche occhio anonimo e paziente leggerà.

Ma lo farei anche se non mi leggesse nessuno perché scrivere non sarà capirsi, ma almeno è ascoltarsi.

Sette anni di righe scritte corrispondono a quasi duecento post e centomila visualizzazioni, da Hong Kong alla Finlandia, dall’Australia al Perù.

Ho anche due affezionati lettori che, chissà perché, visitano ogni giorno il mio blog: uno vive a Riunione, isola dell’Oceano Indiano occidentale di cui ignoravo l’esistenza, l’altro è di Città del Vaticano, ma dubito che sia Francesco.

A parte alcuni che sento quotidianamente, il resto dei miei follower è gente che non ha né faccia né voce, ma che con post e commenti si fa vedere e sentire comunque.

Poi è stata la volta del mio compleanno e quel giorno ho ricevuto regali bellissimi, ma davanti ad una vecchia ed impolverata Lettera 22 ho provato una commozione che non si può spiegare.

Così io che so scrivere solo a penna e al pc, adesso dovrò imparare ad usare la macchina da scrivere con quel ticchettio che scandisce tempo e parole.

Ogni tanto mi chiedono: perché non scrivi un libro?

Perché penso che di scrittori ce ne siano fin troppi e di lettori, invece, troppo pochi.

Diventare un’ottima lettrice, è questo il mio sogno.

Oltre, naturalmente, quello di lasciare tutto e andare a vedere il mondo, vivere di mojito e tiramisù e morire sotto falso nome.

Ho già pronto l’epitaffio: Vestita di tutto punto, qui riposa la fu PindaricaMente. Perì per darci in sogno i numeri del lotto.

Status quo

A volte tutto è cambiato, anche se niente sembra cambiato.

Tomasi di Lampedusa la sapeva lunga, ma io di più.

E in questi giorni, in cui ho messo a soqquadro la mia vita per il desiderio di mutare l’immutabile, ho capito che voler cambiare il fuori sposta di qualche virgola anche il dentro.

Piccoli segnali, continui ed impercettibili, un reticolo di fili che tirano ora da una parte ora dall’altra e dopo un po’ si è diversi, senza volerlo.

Se fossi un palazzo di dieci piani, solo uno sarebbe mio. Il resto sarebbe fatto di strade percorse, incroci, successi, delusioni, scelte e possibilità.

In quest’ultima settimana, impastando analisi e ragionamenti, calcoli e ponderazioni, ho costruito un altro piano, l’undicesimo.

Per un’inestricabile congiuntura di eventi, negli ultimi sette giorni ho ricevuto due proposte di lavoro. Quelle sognate da una vita, a tempo indeterminato, in città antiche e belle, su poltrone dove tanti siedono senza avere meriti e capacità.

Per anni ho pensato che mi sarei accontentata anche di una sedia pieghevole in plastica pur di fare quel lavoro, proprio quello.

Così mi sono rimessa a studiare e ho partecipato a dei concorsi, avanzando tre caselle. Ho fatto le prove, sono entrata in graduatoria e ho avanzato altre cinque caselle, ho aspettato la chiamata e quando la chiamata è arrivata ho rifiutato e sono tornata al punto di partenza.

Non è il gioco dell’oca, altrimenti l’oca sarei io.

Ma ci sono momenti nella vita in cui si è già dove si vorrebbe essere e qualsiasi cosa non conta più nulla e le scelte, quelle istintive ed epidermiche, sembrano illogiche se guardate con la ragione.

In quei momenti, però, la ragione non serve o forse quando i sogni si avverano non sono più sogni.

E’ stato un po’ come vincere una battaglia e poi non sapere cosa farne del trofeo ma, in fondo, non c’è niente di più effimero del desiderare e non c’è niente di più serio del vivere.

Per tornare al punto di partenza e far sì che tutto rimanesse com’è, sono cambiata io.

Così, dopo un lungo e gattopardesco “ricalcola percorso”, ho spento il navigatore, tanto ormai sapevo dove andare.

Guidando verso lo status quo è partita la musica. I Deep Purple cantavano Child in time a tutto volume ed io, rullando le braccia e suonando una batteria immaginaria, ho capito di essere sulla strada giusta.

E poi dall’undicesimo piano si vede anche il mare.

Passato prossimo

la-clessidra-della-vita-100x100cm-161298

Ecco, non so come spiegarlo, ma ci sono giorni che sembrano fatti apposta per pensare al passato.

E i pensieri vengono in fila come i vagoni dei trenini di plastica nera e rossa, quelli con il passaggio a livello e la carrozza passeggeri che ciuffa e cose così.

Tutta roba legata da un filo che non capisco, ma che forse sono io.

Io che come un rigattiere accumulo ciò che serve a non dimenticare quello che vale la pena non dimenticare perché chi sono stata e chi sono decidono chi sarò.

Conservo parole, fogli, biglietti e piccoli segni di passaggi di vita che voglio tenermi stretti e che ogni tanto annuso per rintracciare un passato che non è ancora remoto.

Mi piacciono le cose antiche, il bianco e nero, la crinolina, la musica del trecento, i mobili di cento anni fa.

Cose che per acquistare valore hanno bisogno di tempo e polvere e ammaccature e ancora tempo.

Dormo nella camera da letto che fu di mia nonna perché dentro l’armadio c’è l’odore dei suoi vestiti e c’é lei capace di starmi accanto, di essermi ancora utile, di suggerirmi ricordi.

Sparse per casa ho cose che sono lì da tanto e anche se sbeccate, lucide e consumate, il tempo le ha fatte diventare preziose.

Un vecchio braciere di rame che adesso è diventato una bellissima fioriera, un pesante ferro da stiro con piccoli intarsi sul fronte che mi ricorda il Flatiron di New York, una grande conchiglia che anche se distante da anni dal mare ne conserva sempre il rumore, un orologio da tavolo in argento che guardo ogni volta con riconoscenza vecchia e stupore nuovo.

Quando ce li ho tra le mani penso che questi oggetti hanno passato vite, storie e generazioni e adesso fanno parte di me e mi seguono silenziosi.

Mi ricordano di un tempo dove molte cose avevano un senso, semplicemente perché c’era gente che dava un senso alle cose.

Io invecchio e loro pure e alla fine ci somigliamo.

Vivere senza storia, senza radici, senza bellezza è inutile e pericoloso.

E forse è per questo che non mi piace la roba moderna, perché tutto è seriale, anonimo, omologato e i polli Aia e le librerie Ikea sono la stessa cosa e hanno lo stesso identico sapore.

Ma, in realtà, se non chiudo con il passato è solo perché non mi piace il ragù.

Un passo indietro

matisse-la-danza-the-dance-1024x692

Lento lento, veloce veloce, lento lento, veloce veloce.

Capita che la vita non sia sempre un elegante fox-trot, ma tocca ballarla comunque.

Compiendo il primo passo, ritornando sui propri passi, camminando su strade dritte e veloci o su sentieri tortuosi e lenti.

Poi le strade a volte si incrociano e ci si incontra.

Ci si può ignorare o salutare e basta o anche decidere di far due passi insieme.

Avanti o indietro non é importante, sono i motivi giusti o sbagliati che fanno la differenza.

Ora, per come la vedo io, credo che esista un ragionevole dubbio su ciò che voleva dire e invece ha detto il tizio che si chiama come Mozart.

Ha detto di aver scelto una ragazza a condurre con lui il Festival perché è bella, perché è la fidanzata di e perché sa stare un passo indietro al suo uomo.

Un passo indietro, sia mai gli facesse ombra.

Ma ammesso che sia stato frainteso e che non era sua intenzione dare della donna un’immagine così stereotipata, il problema non è ciò che ha detto.

Il problema è che il maschile, davanti al femminile, ancora sbanda.

E le donne come me devono ancora ricordare agli uomini, e forse a loro stesse, di essere fatte di corpo e anche di pensiero, di essere capaci di muovere intelletti e di smuovere coscienze, di segnare strade ed essere creature portatrici di dignità.

Perciò bellissime.

Perché bellezza, per me, è quello che rimane di una donna quando si dimentica di essere bella. Il resto è réclame.

Ma vivere in un mondo di tronisti, pupe e veline, dove essere belli conta più di essere bravi, dimostra quanto la strada sia ancora lunga.

E anziché fare un passo indietro, quella strada sarebbe auspicabile percorrerla insieme, fianco a fianco, rispettando ognuno l’andatura dell’altro.

Di passi indietro io ne faccio tanti. Per ammirare meglio un quadro, per prendere la rincorsa, per dare un senso a quelli che farò avanti.

L’errore è fare un passo indietro per far percepire l’altro come un gigante, perché a seguire un’ombra si diventa solo l’ombra di un’ombra.

Detto ciò, aridatece Pippo Baudo.