Pagina bianca (o zibaldone pindarico)

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C’è un modo solo di fermare le parole, scriverle.

Appoggiare su una pagina bianca un selciato di segni neri e di pensieri vermigli e dire loro: “Adesso dovete farcela da soli”.

E poi rimanere lì, a guardare quelli che riusciranno a sopravvivere.

Ogni tanto, però, il cervello finisce l’inchiostro.

E senza idee e ispirazioni che valga la pena annusare, su quella pagina bianca non resta altro che disegnarci una faccia.

Un sorriso, due occhi che pensano e il barlume di un minuscolo stupore.

Anche oggi, seduta davanti alla tastiera, è come se aspettassi qualcosa.

Un ricordo, un sogno, un segno o un frammento di me da rimettere a posto.

Ma ho solo mani vuote e testa assente e il foglio è così ostinatamente bianco.

Potrei scrivere, che ne so, del tempo e del sole che se ne va ogni giorno un po’ prima o del lavoro che ammorba e della voglia di mollare tutto, andare a Copacabana, aprire un chiringuito e vendere granite siciliane.

Potrei provare a spiegare che essere siciliana vuol dire aver preso da Pirandello il sentimento del contrario, da Verga la malavoglia e da Camilleri la taliata o che essere nati nella parte fortunata del mondo non è un merito, ma solo culo. Oppure che la distinzione nord/sud va bene quando c’è da scegliere fra un Chianti riserva o un Nero d’Avola, riferita a persone, invece, andrebbe sempre evitata.

Potrei parlare di quelli che hanno un’opinione su tutto e che, di solito, sono quelli che bilanciano il mio bisogno di non dare opinioni su niente. O della gente che non sa nulla di me che spiega ad altra gente che non sa nulla di me, chi sono io.

Potrei raccontare di quel giorno in cui ho capito di essere quercia, che poi è anche il giorno in cui ho capito che essere giunco è l’unico modo per continuare ad essere quercia. O di quella volta che ho riempito i cassetti di bustine di tè e poi ho sperato che diventassero bauli della Compagnia delle Indie.

Potrei dire che anche il più forte ha il suo punto debole e che il bello è conoscere quel punto dove affondare la lama e tenere il coltello in tasca. O di tutte le volte che muoio soffocata da parole non dette per non offendere chi inizia un discorso con “Senza offesa”.

Potrei chiedermi se pure in Asia chiamano le loro figlie Umbria o Basilicata, ma poi mi ricordo che ho un nome strano anch’io e quindi mi taccio.

Potrei parlare degli antichi Greci che, alla morte di un uomo, non scrivevano necrologi, ma si ponevano una sola domanda: “Era capace di passione?” e raccontare cos’è per me la passione.

O potrei scrivere della gente che crede che io capisca tutto, a primo colpo, ma che in realtà fingo per non deluderla. Oppure dell’unica cosa che ho capito: che chi sa vivere, vive e chi non sa vivere, insegna agli altri a farlo.

Potrei dire tante cose, se solo le parole la smettessero di giocare a nascondino.

Ma, forse, scrivere del mutismo di una pagina bianca è scrivere comunque.

 

Anabasi

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Tutto sarebbe più facile se fossi solo una.

E invece contengo mille me.

Un condominio incasinato e abitato da un’infinità di matrioske che se ne stanno lì, una dentro l’altra, sul fondo del mio fondo, senza nemmeno pagare l’affitto.

Così ogni tanto prendo un ascensore e vado giù.

Parto da me e, con un bagaglio leggero, provo ad arrivare alla vera me.

E’ un viaggio che non ce n’è uno uguale e da cui non torno mai come sono partita.

Procedo, inciampo, scavo, scovo, rovisto.

Per capire chi sono stata e per non dimenticare chi sono diventata.

Lungo questo cammino verso l’interno, ci sono le strade che ho intravisto e poi abbandonato e quelle che ho percorso e mai più percorrerò.

Ci sono i viottoli poco frequentati, le salite lente e tortuose, le discese ripide e pericolose, gli incroci senza semafori e le piazze dove la gente sfreccia senza voltarsi.

Ci sono i pensieri di marmo, i sorrisi di creta, le promesse non mantenute, le scatole che mi porto dietro da una vita all’altra e il suono di passi incerti e titubanti.

I miei.

Quelli di quando cammino senza direzione, come una turista che si è persa.

Poi però parte un giro di basso o il sax di una vecchia canzone e allora rallento e mi godo il paesaggio.

Mi faccio largo tra mucchi di pensieri senza senso, strati di robe inutili, cumuli di storie strane e altri mille fardelli che pesano, frenano, bloccano.

Ma io non ho paura.

Perché so che lì, da qualche parte, c’è una costruzione bassa e un po’ sgarrupata, con le mura in pietra piene di rampicanti, da cui se mi affaccio vedo il mare.

“θάλαττα! θάλαττα!” grido, proprio come i diecimila mercenari greci di cui narra Senofonte.

Uno non lo sa cosa ha dentro finché non scende nel profondo.

Però il senso deve per forza essere lì. Non altrove.

E se non troverò niente nel viaggio di andata, troverò qualcosa in quello di ritorno.

Che ogni viaggio verso l’interno, si sa, è un viaggio verso l’alto.

Ne vale la pena?

Ne vale la pena.

Basta un ascensore ed un bagaglio pieno di dubbi.

Perché chi parte con i dubbi difficilmente perderà roba per strada.