Sono quella che non è più quella di una volta.
Avevo 25 anni e lunghi capelli biondi che lavavo con lo shampoo Campus alla mela verde, sognavo di fare un giro sull’elicottero di Another brick in the wall e volevo andare a vivere a New York per guardare il fumo che usciva dai tombini.
Era l’estate del Commodore 64, del floppy disk e della tastiera senza la chiocciola.
Su quei tasti neri che sembravano sciogliersi per il caldo ho scritto la mia tesi di laurea.
Scrivevo di Dante, della Divina Commedia e di una selva oscura che, in quei giorni, sembrava anche a me un buon posto dove nascondersi.
Purgatorio, canto XXXII, le allegorie.
La curia romana è rappresentata come una puttana ammiccante e sicura di sé; accanto a lei c’è un gigante, Filippo il Bello re di Francia, che la sorveglia perché non si allontani e scambia con lei dei baci sfacciati. E quando la prostituta rivolge a Dante uno sguardo pieno di desiderio “quel feroce drudo la flagellò dal capo infin le piante”.
È la tarda mattinata di mercoledì 13 aprile (o 30 marzo) del 1300 e il canto racconta il trasferimento della sede papale ad Avignone.
Ma descrive anche il turbamento di Dante nel rivedere, dopo dieci lunghi anni, il volto di Beatrice: ha la vista abbagliata come se avesse fissato il sole. “Tant’eran li occhi miei fissi e attenti a disbramarsi la decenne sete, che li altri sensi m’eran tutti spenti.”
Dante mi ha insegnato che una cosa bella va guardata, non fotografata. E poi il ricordo tenuto nel cuore, come tutte le cose preziose.
Che tutto ruota intorno all’Amore e alla Morte. In letteratura, in poesia, nella vita di tutti i giorni, da secoli. Il trucco, forse, sta solo nel dire meglio quello che altri hanno già detto e portarlo lontano.
Che la mancanza partorisce desiderio. Si desidera infatti quello che non si ha o si fa fatica ad avere.
D’altronde persino Mark Caltagirone ha capito che in amore vince chi fugge.
Ognuno gioca con i jolly che ha.
Quando sento dire che l’università non serve, che le materie umanistiche non danno lavoro e che studiare è tempo sprecato, gioco il mio.
E rispondo: avere una bella testa è molto più che avere solo una testa. Quindi se alla virtute e canoscenza preferisci fare soldi, prima o poi ti verrà una paura fottuta che io te li possa portare via, diventando migliore di te grazie a cose che tu non hai imparato.
Studiare l’Infinito di Leopardi o il Simposio di Platone o la Vita Nova di Dante non mi ha fatto diventare ricca, ma una persona capace, quello almeno sì.
Capace di difendermi, di non farmi raggirare con le parole, di mettere qualche accento giusto, di imbroccare le acca e di azzeccare i congiuntivi.
Ecco perché oggi sono quella che non è più quella di una volta.
Però, nel dubbio, chiedo a Pamela Prati se esisto davvero.