Modalità provvisoria

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Stamani mi sono avviata in modalità provvisoria.

La modalità provvisoria di prima mattina prelude sempre ad una giornataccia ma, per risolvere certi bug che ti capitano tra capo e collo, inaspettatamente e senza preavviso, rimane l’unica soluzione efficace.

Risveglio pigro, pensieri rallentati, sistema impallato.

Ctrl+alt+canc ed ho eseguito la chiusura d’emergenza. Ho riavviato il sistema, ho usato il tasto F8 ed ho attivato la modalità provvisoria.

Hard reset domenicale, pulizie drastiche come quelle che solitamente si fanno in primavera.

Sono stata infettata da un maledetto malware, un virus subdolo e pericoloso che devo necessariamente eliminare prima che si propaghi come la gramigna.

Il trojan si è palesato stamani. Mi guardavo distrattamente allo specchio e l’ho notato, come si nota un particolare che stona.

Strano…mi è quasi sembrato di…ma sicuramente no…anche se…aspetta un attimo…meglio verificare da vicino.

Sarà la luce? Spengo la luce. Riaccendo la luce.

Sarà un riflesso? Apro la finestra. Chiudo la finestra.

L’ho guardato bene, l’ho guardato meglio. E’ bianco. Innegabilmente bianco. Inesorabilmente bianco. Ed è anche brutto, fatto male, al tatto ricorda i fili di nylon. Che ci fa un capello bianco sulla mia testa? Con le dita sposto nervosamente ciocche di capelli da una parte all’altra. Cerco altri maledettissimi capelli bianchi, ma non ce ne sono. Lui è solo, è l’unico, è di troppo.

Il primo capello bianco è per sempre. Anche se sono appena entrata negli anta, non l’ho presa affatto bene, non si è mai pronti a colpi così bassi.

Mi sento sola, sola con un capello bianco a farmi compagnia. Mi serve comprensione e sostegno. Non so cosa fare, chi chiamare. Mia sorella meglio di no, mi direbbe che il primo capello bianco  a lei è comparso a 20 anni e che quindi dovrei ritenermi pure fortunata. Mia mamma non ne parliamo, si farebbe una bella risata come per dire “bella mia, hai una certa età” e a Natale mi regalerebbe un abbonamento annuale dal parrucchiere.

Non mi rimane altro che sporgere denuncia: denuncio il mio primo (ed unico) capello bianco per lesioni personali aggravate. E visto il trauma tricologico che ho subito, già che ci sono, chiedo anche il risarcimento dei danni morali, biologici ed esistenziali.

Sembrava una domenica come tante altre e si è trasformata invece in una domenica brizzolata, un po’ sale e pepe, una di quelle domeniche da “Cinquanta sfumature di bianco”.

La modalità provvisoria è la mia unica ancora di salvezza. Devo eseguire la procedura con calma, passo per passo.

Il bastardo è sempre lì, arrogante, orgoglioso e fiero di aver compiuto la sua ascesa sociale.

Lo strappo? E se poi me ne ricrescono altri sette? No, non lo strappo.

Sono a un punto morto, la vita mi scorre davanti e rimembro i tempi quando beltà splendea sui miei capelli monocromatici.

Bianco non è un bel colore. E’ il colore del tempo che passa.

In modalità provvisoria, invece, il colore dominante è il nero.

Sono pronta: scansiono l’hard disk, elimino gli errori di sistema, avvio l’antivirus e metto in quarantena quell’unico maledettissimo file di colore bianco.

Lo guardo disperarsi nel suo isolamento forzato e mi preparo all’atto finale. Premo il tasto delete. Confermo l’eliminazione definitiva del file. Svuoto il cestino.

Ora posso finalmente riavviare il sistema.

Che la domenica abbia inizio, in modalità classica.

Il dente del pregiudizio

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Una mattina, in ufficio, ho ricevuto un’orchidea.

Una bellissima orchidea dai fiori color crema con eleganti pennellate sui toni del porpora. Mi è stata donata da un fornitore. Un gesto carino, un atto di cortesia, di mera simpatia. Certamente non dovuto, comunque sentito e da me, pertanto, apprezzato.

Regali del genere non si dovrebbero accettare. Qui non siamo in Sicilia – è stato il commento alquanto infelice di un mio collega che, dall’alto della sua superiorità geografica e deontologica, mi invitava a restituire la pianta per non dare luogo a spiacevoli fraintendimenti. Durante il suo sproloquio mi è sembrato anche di sentire la parola “tangenti“, ma forse ho capito male io.

E’ lo stesso collega che, ogni volta che mi assento qualche giorno per andare in Sicilia dalla mia famiglia, puntualmente, ormai da anni, mi rivolge la stessa domanda: “Vai laggiù a rinnovare il permesso di soggiorno?”

Battuta che, detta una volta, fa sorridere. Due annoia. Alla terza stanca. No, non mi sono mai sentita offesa dalle sue parole, che ritengo squalificanti solo per lui che le pensa e le pronuncia.

C’è un tempo per parlare ed uno per tacere e di fronte a questo genere di provocazioni preferisco tacere. Sono però una di laggiù, non dimentico.

Laggiù. Uno spazio geografico indefinito, un’area periferica relegata in basso, una zona che inizia dove finisce il nord. Laggiù è comunque giù al sud, un luogo che non esiste da solo, ma solo se riferito a un altro che lo sovrasta. E il sud, quando smette di essere un punto cardinale, diventa stereotipo, diventa pregiudizio.

E’ più facile spezzare il nucleo di un atomo che un pregiudizio, sosteneva Einstein, consapevole che l’errore più grande che si possa fare sia quello di giudicare senza conoscere, di fermarsi ai preconcetti piuttosto che formulare concetti, di cadere nei pregiudizi invece di esprimere giudizi.

In quanto opinione senza giudizio, il pregiudizio è figlio della stupidità, è un atto di presunzione.

Di solito ignoranza e pregiudizio camminano mano nella mano. Di solito il dente del pregiudizio cresce accanto al dente avvelenato.

Peccato, perchè spesso dietro gli angoli del pregiudizio si nascondono delle piacevoli sorprese. Basta fare un passo in avanti o di lato, cambiare punto di vista, scegliere un’altra prospettiva. Senza paraocchi, senza punti cardinali, superando le colonne d’Ercole, anche quelle mentali.

L’orchidea fa bella vista di sè nel mio ufficio.

Nella stanza accanto il mio collega fissa attonito un mappamondo che, per uno strano scherzo del destino, ha i poli invertiti. Quello che era il nord ora è il sud, ciò che era in alto ora è in basso. Anche lui, che è sempre stato lassù, ora è laggiù.

Chissà, forse un giorno capirà che siamo tutti a sud di qualcuno e che ci sarà sempre qualcuno più a sud di noi.

Il fatto che il mio collega parli (male) della Sicilia relata refero, per sentito dire, visto che non c’è mai stato, è già abbastanza singolare. Ma la vera notizia, quella decisamente buffa, è che sua figlia si è da poco fidanzata. Con un valdostano? Con un altoatesino? Magari con un leghista? Macchè! Con un siciliano.

Dio c’è.

Uomini che dimenticano le donne (all’autogrill)

Attesa

Gli uomini, questi smemorati. O forse sono solo distratti. Chissà.

Fatto sta che è successo ancora.

La storia si ripete: un tedesco ha lasciato la neo-moglie all’autogrill, proprio durante la luna di miele. I novelli sposi erano in viaggio di nozze con i due figli quando hanno deciso di fermarsi in una stazione di servizio a fare rifornimento. Durante la sosta la moglie è scesa dal minivan per andare in bagno e quando è tornata ha scoperto che il marito non c’era più. L’uomo, che pensava che la moglie stesse dormendo sul sedile posteriore, si è accorto della sua assenza 200 chilometri dopo e solo cinque ore più tardi, con l’aiuto della polizia, è riuscito a ricongiungersi con la moglie. “Mio marito è uno stupido– avrebbe detto la donna- ma non ce l’ho con lui. Sicuramente non l’ha fatto di proposito“.

Che dire?! Proprio un ottimo inizio di vita insieme.

Quello che è successo alla signora tedesca è un po’ quello che era capitato a Rosalba, la casalinga di Pescara protagonista del film “Pane e Tulipani”. Tornando da una gita in autobus con famiglia e amici, Rosalba viene dimenticata all’autogrill. Superati i primi momenti di smarrimento, la donna approfitta della situazione per ripensare alla sua stessa esistenza e se alla fine decide di tornare a casa è solo per ripartire subito dopo verso una nuova vita.

Nella vita reale non funziona proprio così. Le mogli abbandonate all’autogrill, una volta ritrovate, tornano a casa dai loro mariti e ci rimangono, convinte che si sia trattato di una semplice dimenticanza, di una momentanea amnesia, di un episodio isolato che mai più ricapiterà.

Nel corso degli anni, sono cambiate le coppie, ma il risultato è stato sempre lo stesso. Nel 1999, una coppia di Monaco di Baviera di ritorno da un viaggio in Calabria, si era fermata in un autogrill vicino Roma. Subito dopo lui era ripartito convinto che la moglie dormisse sui sedili posteriori. Solo vicino Firenze si è reso conto che lei invece era rimasta a Roma. La polizia l’ha ritrovata seduta sul guard-rail dell’autogrill in serafica attesa del marito.

Nel 2004 un danese in viaggio verso la Spagna ha dimenticato la moglie in un’area di sosta in Francia. La donna che con sè  non aveva documenti, nè soldi, nè telefono, è riuscita dopo varie peripezie a contattare un pattuglia di gendarmi. Quando l’uomo è stato rintracciato è dovuto tornare indietro di 250 chilometri per recuperare la moglie, della quale non aveva neanche notato l’assenza.

Un motociclista francese nel 2008,  invece, si è accorto dell’assenza della moglie solo dopo 120 chilometri. Preso dal panico e convinto che lei fosse caduta durante il viaggio si è presentato dalla Polizia in stato confusionale. Dopo ore di ricerche, la donna è stata ritrovata in un’area di sosta in Alsazia, la stessa dove il marito l’aveva dimenticata.

Per Freud e colleghi questi sono segnali dell’inconscio, atteggiamenti che nascondono pensieri repressi, antipatie, voglia di evadere dalla solita routine. Direbbero che una apparente dimenticanza non è mai da sottovalutare perchè di solito viene dimenticato ciò che non è ritenuto importante.

Ma Freud e colleghi come giustificano il fatto che, nel 100% dei casi, ad essere abbandonate all’autogrill sono sempre le mogli e mai i mariti?

Una moglie non esce per comprare le sigarette e non fa più ritorno a casa. E se una una sera non ha voglia di adempiere ai propri doveri coniugali al massimo improvvisa il classico mal di testa. Non è che si alza nel cuore della notte per andare al supermercato a controllare la freschezza di frutta e verdura, come quel tizio della pubblicità del Conad che abbandona la moglie a letto liquidandola con un banalissimo “Amore, c’è un problema“.

Ma ormai è risaputo che l’uomo  pecca di romanticismo. E si sa anche che, per sua stessa natura, è animal obliviscens, un animale che dimentica. La dimenticanza però, al massimo, andrebbe perdonata una volta sola. Quando l’uomo diventa recidivo, è inutile stare a scomodare Freud e colleghi. L’unica cosa da fare è contattare un bravo avvocato divorzista.

Lo sa bene un cinquantenne della Repubblica Dominicana in vacanza in Italia con la moglie. La coppia si era fermata a fare rifornimento in un autogrill sulla Piacenza-Cremona, ma al momento di ripartire, il marito ha lasciato la moglie nell’area di servizio. Approfittando del fatto che la signora era andata in bagno, è salito sull’auto ed è ripartito di gran carriera.

Quando la donna è uscita dalla toilette e si è resa conto di essere stata “abbandonata” ha provato a telefonare al marito ma, senza esito, perchè nel frattempo l’uomo aveva lanciato il cellulare sulla corsia opposta dell’autostrada e aveva offerto un passaggio a quattro pellegrine sulla via di Santiago di Compostela, risultate poi essere quattro viados brasiliani.

Quando finalmente la Polstrada è riuscita a rintracciare il marito, l’uomo si è giustificato dicendo che, dato il carattere taciturno della moglie, non si era assolutamente accorto della sua assenza. Una volta riabbracciata la consorte, si è persino abbandonato ad una scena di intensa commozione.

Fatti i dovuti accertamenti, la Polizia ha poi scoperto che l’uomo aveva già più volte tentato l’abbandono della moglie in autogrill, tanto da renderla protagonista di una campagna di sensibilizzazione apparsa sulle televisioni e sui giornali del centro America.

Dunque, cari uomini, un consiglio spassionato: non abbandonate le mogli all’autogrill tanto, dopo un paio d’ore, ve le riportano.

Fratria

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Si racconta che due siciliani arrestati in terra straniera, vennero messi in celle separate affinchè non potessero tra di loro comunicare e concordare un piano  di difesa comune. Portati il giorno dopo davanti al re per essere giudicati, i due trovarono il modo per scambiarsi una rapida occhiata, una veloce taliàta. Che venne però intercettata dal primo ministro, anche lui siciliano, che gridò: ” E’ tutto inutile, Maestà, parlarono!”

Parlarsi con gli occhi. Fra siciliani, niente è più eloquente di uno sguardo.

Lo spiega bene Camilleri: “L’amicizia siciliana, quella vera si basa sul non detto, sull’intuito: uno ad un amico non ha bisogno di domandare, è l’altro che autonomamente capisce e agisce di consequenzia“. E ancora: ” L’amicizia siciliana è un’arte difficile e forse bisognerebbe chiamarla con un nome diverso, fratrìa, fratellanza, consanguineità d’elezione. Fra due amici siciliani si crea come un cerchio magico che esclude gli altri, i fatti del mondo e macari della Storia“.

Fratria, l’amicizia siciliana bisognerebbe chiamarla fratrìa.

Non è una parola sicula, viene dal greco antico  (φρατρία) ed indica una comunità costituita da persone che si considerano discendenti da un antenato comune e legate fra loro da vincoli “fraterni” di solidarietà, affetto, difesa, protezione. La fratria è fatta di  conoscenza reciproca, di sguardi sicuri e silenziosi, quasi complici.

L’amicizia per i siciliani è questo. E’ la relazione fra persone che si ritengono consanguinee pur non essendolo, è capire l’altro al primo sguardo, è comunicare rimanendo in silenzio. Non serve proferire parola. Basta ‘na taliàta.

Camilleri racconta che, quando Vincenzo Consolo andava a trovare Leonardo Sciascia, si sedevano uno di fronte all’altro, visibilmente felici di rivedersi, e parlavano pochissimo. Perchè due amici siciliani, incontrandosi, possono stare zitti proprio per dimostrarsi che si conoscono e si vogliono talmente bene che non serve dirsi niente.

A volte, in Sicilia non serve nemmeno dirsi “diamoci del tu”. L’amicizia può infatti scattare sin dal primo incontro, sin dalla prima frase. Ci si scambia una rapida occhiata ed è come se ci si riconoscesse.

Empatia, un intenso coinvolgimento emozionale, un legame resistente, come quello di due corde legate fra loro a doppio nodo.

Un rapporto ricco di sfumature, un sentimento amplificato, nel bene e nel male. Basta un nonnulla a rompere un’amicizia. Una parola. Non una frase, è sufficiente una sola parola. Perchè la vera amicizia tanto più è profonda e sincera quanto più è delicata e fragile.

I tratti dell’animo siciliano sono molteplici perchè le Sicilie, dopotutto, sono tante. Ma per i siciliani il senso dell’amicizia è uno, univoco, inequivocabile.

In Sicilia quando l’amicizia c’è, è veramente un’affinità ancestrale, un sentimento istintivo, intimo, riservato e mai ostentato. E’ fratria.

Lo sanno bene”i siciliani di scoglio”, quelli che non riescono ad allontanarsi dall’isola e lo sanno bene “i siciliani di mare aperto”, quelli che se ne vanno ma si portano la Sicilia dentro.

E lo sanno bene i lampedusani.

L’abbraccio di un lampedusano ad un migrante. La fratria è tutta lì.

Macchie di inchiostro

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Fuori è buio. Piove. Ascolto il rumore che fa la pioggia e scrivo.

Tanto per cambiare scrivo.

Io scrivo sempre, scrivo continuamente. Scrivo per sfidare il frastuono dei pensieri mutandoli in parole. E il mondo quando si affida alle parole sembra un bel posto. Allora scrivo.

Guardo le dita impazienti cercare la tastiera, ne ascolto assorta il ticchettio. Quasi fosse una pulsione da assecondare, una porta da dischiudere. Le parole irrompono, si accalcano, si accavallano. E’ arrivato il momento di liberarle, di creare mondi, di riempire fogli bianchi di macchie di inchiostro nero.

Devo registrare i pensieri prima di farli svanire, devo creare intrecci di parole, tessere legami inevitabili. Lego le parole tra di loro, perchè la scrittura lega le parole alle persone, perchè chi scrive si lega a chi legge. Inevitabili legami.

E’ l’illuminazione di un attimo. Succede per strada, a letto, a tavola, in mezzo alla gente. Dentro le gabbie io le vedo, là dentro ci sono un sacco di parole che premono e spingono e sembrano scimmie impazzite. Un insieme disordinato di vocali e di consonanti, di punti e di virgole.

Mi muovo un po’ come nella nebbia. Non conosco la strada. Non so quale sia. Non so neanche dove mi porterà. Ci sono solo fogli bianchi da riempire, pagine da imbrattare, storie da raccontare. Le storie che escono dalle dita partono sempre dalla pancia. Parlano di me. E non dei vari me. Ma di me.

Tutte queste cose da tenere nella testa sono troppe.

Ecco perchè scrivo.

Lo faccio per me. In fondo scrivo per me.

(Forse).

Quote rosa shocking

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Lo stridio del gesso sulla lavagna, il fischio del microfono, il rumore del trapano dal dentista. Tutti suoni fastidiosi e molesti che mi fanno accapponare la pelle.

Confesso, però, che io rabbrividisco anche quando qualcuno dice o scrive sindaca o ministra o assessora o avvocata.

Quando sento queste parole declinate al femminile, chissà perchè, mi viene in mente Catarella, il poliziotto centralinista del commissariato di Montalbano che non azzecca mai (mai!) un nome, un cognome, un titolo professionale.

Solo che stavolta Catarella avrebbe ragione. Queste parole infatti, da un punto di vista linguistico, sono assolutamente corrette e  sono state ormai sdoganate.

Il problema è mio, solo mio. Sarò anche politicamente scorretta, ma tutta ‘sta querelle sul sessismo nella lingua italiana per me è una cagata pazzesca! Un po’ come la fantozziana corazzata Potëmkin.

Una questione di lana caprina che però ha fatto scomodare illustri puristi del linguaggio, insigni italianisti, acculturati membri dell’Accademia della Crusca. Tutti hanno concordato sul fatto che “un linguaggio monosessuato e androcentrico rappresenta un potente strumento di oppressione culturale” e quindi tutti si sono pronunciati a favore dell’uso del genere femminile per indicare ruoli e cariche storicamente maschili.

Hanno sostenuto che la lingua rappresenta lo specchio della realtà sociale e poichè oggi la realtà sta cambiando, è doveroso che anche la lingua si adatti e faccia il suo corso.

Hanno detto che, poichè l’italiano non ha il genere neutro, è corretto concordare al femminile il nome di cariche pubbliche fino ad ora declinate solo al maschile ed è necessario prendere confidenza con parole nuove come assessora, consigliera, ministra, architetta, avvocata, chirurga, commissaria, rettora, deputata, prefetta, notaia, sindaca.

Hanno dichiarato che “un linguaggio troppo maschilista discrimina le donne in quanto tali, esclude il genere femminile, emargina sia il femminino che la femminilità, sminuisce l’espressione del femminile e la subordina al maschile, mortifica le aspirazioni della donna, ignora le sue istanze, censura le sue proteste, confina la cultura femminile in riserve recintate, ghettizza il pensiero femminile”.

Addirittura?! Addirittura.

Nel dubbio però, ognuno fa come meglio crede.

Come un autorevole giornalista che, su un autorevole quotidiano, ha scritto un’assessore per rimarcare con un colpo d’apostrofo che si riferiva ad una donna e non ad un uomo, spiegando che il suo non era un refuso ma una consapevole scelta linguistica. (Se avesse scritto che gli era morta la maestra di italiano alle elementari sarebbe stato più credibile. E forse ancora più autorevole).

Comunque, sono d’accordo che la lingua debba fare il suo corso ma, al di là delle motivazioni puramente linguistiche, quelle che davvero non concepisco sono le motivazioni vetero-femministe di chi sostiene che certi termini declinati solo al maschile mortificano il ruolo della donna, creano discriminazione, non permettono una vera parità di genere.

Non è una questione di genere, è una questione di buon senso.

Non credo che cambiando la desinenza di qualche parola si raggiunga la parità o si ponga fine alla discriminazione verso le donne.

Non penso che il cambio di genere rappresenti davvero una conquista. Non è modificando le regole grammaticali o rendendo la lingua completamente neutra che si conquistano le pari opportunità.

Per me, le donne che pretendono ed esigono di essere chiamate assessora o ministra o sindaca per una forma di riconoscimento per l’impegno che hanno messo a ottenere quel risultato, segnalano invece un piccolo, ingiustificato e infondato complesso d’inferiorità.

Mi piace pensare che, le donne che ricoprono ruoli di vertice, ci siano arrivate per giusti meriti, per intrinseche capacità, per indiscusse competenze e non perchè un’assurda legge sulle quote rosa ha permesso loro di arrivarci.

E non penso di sminuire il ruolo che faticosamente hanno raggiunto se mi rivolgo loro chiamandole sindaco o assessore o ministro o avvocato. Nessuna mancanza di rispetto, uso solo parole che designano la carica in sè e non chi la ricopre.

Sciascia sosteneva che “l’italiano non è l’italiano, è il ragionare“. Io, quindi, ci ho ragionato sopra  ed ho deciso che continuerò a dire e a scrivere ministro, sindaco, assessore, avvocato anche quando questi ruoli sono ricoperti da donne. Da donne come me.

Anche perchè, come la mettiamo con “perita”, nel senso di una che ha il diploma di perito chimico?

Immagino già la telefonata del povero Catarella a Montalbano: “Dottori, dottori scusassi. C’è qui una signora che dice di essere perita, ma a mia viva e vegeta mi pare!  E’ venuta di pirsona pirsonalmente, quindi comu fa a essere morta?!”