Qui ci sono i leoni

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Non é mettere in fila soggetto, verbo e robe così.

Scrivere é fatica. Ed è anche vanità.

E’ esporsi. Ed é anche nascondersi dietro le parole.

E’ impegno e costanza. Passione e intelligenza. E, se si é giornalisti, é anche preparazione e distacco.

Ché l’inchiostro dei giornalisti é nero. E tinge le dita e la reputazione.

Rincorrere fatti, segnalazioni, notizie. Andare, vedere, raccontare. Raccogliere storie, cercare conferme, verificare fonti.

Questo é il giornalismo.

Poi ci sono i giornalisti. E i pennivendoli e i parolai e i venditori di notizie.

Infine ci sono io che, ogni anno, da dieci anni, pago la quota associativa all’Ordine.

E mi vergogno.

Di pagare. E di far parte di un Ordine a cui sono iscritti anche tanti giornalisti di quart’ordine.

Quelli che, all’indomani di un disastro aereo, si piazzano davanti ad un aeroporto e chiedono, a chi é in partenza, cosa ne pensa degli aerei che cadono.

O che, armati di microfono e telecamere, vanno a cercare il dolore dei parenti di un ragazzo morto ammazzato. E, davanti a quel cadavere ancora caldo, chiedono alla madre: “Cosa le manca di più di suo figlio?”.

Quelli che passano le giornate davanti ai palazzi del potere per intervistare il politico di turno. E si limitano a fare domande strumentali, per poter poi strumentalizzare meglio le risposte.

O che annunciano, in tv, l’ultima sciagura del pianeta. E dopo un frettoloso resoconto di morti, feriti e dispersi, finiscono il servizio con la classica formula rassicurante: “Fortunatamente non ci sono italiani”.

Perché certi giornalisti di oggi sono come certi cartografi di una volta. Che disegnavano le mappe dei territori conquistati e negli altri posti scrivevano “Hic sunt leones”. Qui ci sono i leoni.

Come se i leoni non avessero diritti.

Come se potesse esistere un mondo senza leoni.

Scrivere non é mettere in fila soggetto, verbo e robe così.

E non é la tessera dell’Ordine a fare di un giornalaio, un giornalista.

Ma se qui ci sono i leoni, meglio vivere un giorno da leone che cento da pecora (da tastiera).

 

 

La prova del nove

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Ogni tanto mi fisso sulle parole.

Ci inciampo, ci sbatto, a volte mi ci appiglio. Come con le persone.

E non sono tutte uguali, le parole.

Alcune sono piume. Si posano leggere, senza rumore, senza importanza.

Altre pesano, come macigni.

Fiducia, ad esempio. Ogni lettera, una tonnellata.

Perchè è complicato fidarsi. O sapere di chi fidarsi. O tornare a fidarsi.

Fidarsi. E’ contare su qualcuno. E’ sapere che quel qualcuno c’è. Non ora, ma se ce ne fosse bisogno. Saperlo, però, fa stare già meglio, ora.

Affidarsi. E’ consegnare ad altri la propria fiducia affinchè venga custodita, difesa, protetta. E’ gettarsi dall’alto sapendo di cadere sul morbido.

Confidarsi. E’ avere fiducia insieme, l’uno nell’altro. E’ donare una parte di sè, prendendo in custodia qualcos’altro.

Si declina in tanti modi, la fiducia. E non c’è un modo giusto, ciascuno ha il suo.

A piccole dosi. Con prudenza. Con cautela. Io mi fido così.

E me ne sto lì, per un po’, con la mia verità in una tasca e i miei dubbi nell’altra.

E provo a capire, a capirci qualcosa. Se non funziona, allora, dico di no.

Perchè non è una medaglia di latta da ostentare e da appuntare sul petto, la fiducia. Va meritata, conquistata e poi restituita.

E perchè ci sono cose che prima non facevano male. Ora si.

Cose, persone, stagioni. Lì, in mezzo, ci sta la fregatura.

Allora diffido. Di chi dice di essere affidabile. Di chi non prende posizione. Di chi parla troppo e di chi parla troppo poco. Di chi sorride sempre e di chi non sorride mai. Di chi ha tutte le risposte, ancora prima di aver fatto le domande.

E diffido di certe giornate di sole in cui, in un attimo, tutto può cambiare. Così, anche se fa caldo, continuo a mettere il maglione a collo alto, il cappotto e la sciarpa di lana. E, per non avere brutte sorprese, mi porto dietro pure l’ombrello.

La gente per strada, poi, mi guarda un po’ strana. Ed io guardo loro, con un pizzico di invidia. Perchè loro, con beata incoscienza, sono già in maglietta e giacchino leggero. Perchè loro, rischiando, si sono fidati del sole.

Io mi fido degli odori, degli sguardi, della voce. Delle sensazioni nette, antiche, incomprensibili.

E mi fido dalla pelle. Che è, per me, la zona di confine fra dentro e fuori. Che è, per me, la prova del nove.

Solo allora tolgo il maglione, il cappotto e la sciarpa di lana.

E me ne sto lì, nuda, fragile e fallibile. Sentendomi forte.

Perchè la fiducia è una corazza inattaccabile, sapendola usare.

Legami (con l’accento sulla a)

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É quando i pensieri si fanno intimi, invernali, a collo alto che rimpiango di non aver mai cominciato a fumare.

Perchè una sigaretta, ecco, una sigaretta ora ci starebbe proprio bene.

Mi guardo le mani. Somigliano alle sue.

Da mia madre ho preso anche il naso, la forma delle unghie dei piedi, l’abitudine di comprare giacche e cappotti di una taglia in meno e la capacità di addormentarmi sul divano prima ancora che il film cominci.

Pure questa cosa di dover dire, ad un certo punto, quello che penso l’ho presa da lei.

Donna forte, gentile e protettiva al limite dell’amore. Ancora oggi, quando mi rimprovera qualcosa, lo fa sempre con quella sfumatura materna di chi conosce i miei limiti e ha capito che non li supererò mai.

Da lei ho imparato ad ostentare sicurezza, per confondere il nemico. E a non aver paura di mostrare i punti deboli, quando il lato forte è ormai evidente a tutti.

Qualcuno, poi, mi dovrà spiegare per quale motivo non ho preso da mia madre anche la passione per la cucina o le gambe toniche, senza cellulite.

Da mio padre, invece, ho preso gli occhi, il colore dei capelli e l’amore per la lettura.

Uomo paziente e dalle maniere semplici. Mi ha insegnato con l’esempio e la parola, senza mai rincorrermi. Sono io, al contrario, che gli sono andata dietro.

Da lui ho imparato il dubbio, tra giusto e sbagliato. E ormai, il dubbio, ce l’ho addosso. A volte mi corrode, altre mi fa incazzare. Spesso, però, mi allontana dall’errore.

Qualcuno, un giorno, mi dovrà spiegare per quale motivo non ho preso da mio padre anche l’abilità nell’usare matite, colori e pennelli e nel dipingere, su tela, storie e stati d’animo.

Un po’ dell’uno e un po’ dell’altra, meno qualcosa e piú qualcos’altro. Ecco chi sono io.

Quel poco che sono, insomma, lo devo a loro. E loro sono così da quando li conosco.

Un rifugio sicuro, fatto di mattoni isolanti e resistenti.

Una corda ruvida e solida, piena di nodi grandi e stretti.

Un legame fatto di affetti e somiglianze. Di tempo e distanze. Di sangue e diennea.

Perché, in ogni tempo e in ogni luogo, i parenti non si scelgono. Si ritrovano a fianco.

A me è andata bene.

E se si chiamano parenti stretti è perché, a volte, sono da stringere, in un abbraccio.

Una sigaretta. Ecco, una sigaretta ora ci starebbe proprio bene.