Ho delle isole negli occhi

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Voglia di mare, mentre oggi piove.

Basterebbe una settimana a caso, su un’isola a caso. Con il mare intorno, uno a caso.

Una spiaggia con pochi ombrelloni, un libro e un po’ di vento che assordi la mente.

E stare lì a guardare il sole che tramonta sul mare.

Perché in un posto di mare il sole dovrebbe tramontare sul mare, per legge.

Quando attorno tutto è complicato e le cose si fanno difficili e il lavoro assorbe energie e il capo chiede i documenti via fax e poi cambia idea e li vuole via Pec e lo scanner non funziona e il caldo è soffocante e l’asfalto si scioglie sotto i tacchi e le macchine sono scatolette di lamiera infuocata e in giro non si trova un parcheggio neanche a pagarlo, ecco, proprio in quel momento mi viene da pensare a come si starebbe bene sulla spiaggia di Kalamaki, nell’isola di Zante.

Fare nuotate silenziose, annusare pini e cipressi e mangiare pesce crudo in una di quelle palafitte fatte di legno portato dal mare.

E nella sabbia, intanto, le uova delle tartarughe si intrecciano con i versi di Kavafis sul viaggio e con quelli di Foscolo sulla nostalgia.

Si starebbe bene anche in un’isola del nord, una qualsiasi delle Faroe.

Dove il mare scuro sbatte sugli scogli e fa la schiuma bianca come la birra e l’erba è così verde che viene quasi voglia di togliersi le scarpe e camminarci sopra.

Mi basterebbe sedermi su uno scoglio, farmi scompigliare i capelli dal vento, leggendo Melville o Conrad o Hemingway.

Leggendo di mare davanti al mare.

Oppure sarebbe bello ciondolare tra le palme di Playa Maguana, a Cuba, vicino Baracoa.

Lì la sabbia è bianca, il mare è turchese e i bambini che giocano sulla spiaggia ridono del niente che hanno e che è già molto.

Un bagno e poi un po’ di sole e poi un po’ di ombra e poi due risate e poi di nuovo un bagno e poi un pisolino sull’amaca al fresco, in una casa bassa con una grande veranda e poi un libro di racconti di Lezama Lima, un paio di canzoni dei Buena Vista Social Club e poi due chiacchiere dopo cena e poi al primo sbadiglio, buonanotte.

E svegliarmi in un dammuso, a Pantelleria.

Fare colazione con la granita di gelsi rossi, prendere lo scooter e fare le stradine sterrate che portano al mare.

Ogni tanto uno scorcio, un muretto a secco, un fico d’india.

Con il vento che mi spazza i pensieri, la risacca che mi sfiora le caviglie e il dialetto di Camilleri che mi accarezza la mente.

E poi ci sarebbe l’isola di Santa Cruz, nelle Galapagos.

Dove la luna è gigante, le tartarughe enormi e l’orizzonte non finisce mai.

Piantare un ombrellone su una di quelle spiagge isolate e assolate, stendere un asciugamano e, un minuto dopo, correre in acqua.

Oppure passeggiare su un pontile bianco, affogato nel mare blu, ripensando a quel libro di Amado letto tanto tempo fa, ma che profuma ancora di garofano e cannella.

Però, a dirla tutta, mi basterebbe anche qualche giorno nella mia Sicilia, dove ogni abbraccio sa di casa e l’aria di pane cunzato.

Tra il barocco, lo scirocco, le chiese color oro e i cieli azzurro pantone, mangiare un arancino in santa pace, godendomi ogni singolo boccone come un privilegio.

E leggere negli occhi bruniti di Matteo parole che non smetterei mai di leggere, trovarci un po’ di me e il senso delle cose della vita.

Insomma, datemi un libro, un’isola e il mare davanti.

E lasciatemi lì, per un po’.

 

Quattro anni dopo

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Ascolto il pianoforte accarezzato da Ludovico Einaudi e guardo il sole che sta per andare a letto.

Si è messo un pigiama arancione e di là è apparsa la luna, ancora in vestaglia.

Io intanto scrivo in questo posto strano che sento mio, ma non lo è.

I pensieri, quelli sì che sono miei.

Poi li appoggio qui, qualcuno li legge e non sono più miei.

Perché niente come un blog somiglia ad una bottiglia con dentro i messaggi.

In questo guazzabuglio di appunti sparsi ci sono approdata quattro anni fa, come una migrante.

Qui ho conosciuto decine di persone, qualcuno è sparito, qualcun altro è diventato mio amico, c’è chi si è sposato e chi ha scritto un libro.

Ogni giorno, in modo silenzioso e discreto, ci sono e mi fanno compagnia.

E i loro pensieri mi danno da pensare e, talvolta, da scrivere.

Così anch’io, in un’impercettibile fuga dall’essere me, ogni tanto riverso qui fiotti di coscienza, desideri e turbamenti.

Accosto immagini secondo una logica tutta mia e scrivo post di poche righe che però, sommate, fanno una vita.

Questo blog voleva essere un pensatoio o uno sfogatoio, poi è diventato altro e non me ne sono accorta.

Sono cambiata e lui è cambiato con me.

Scrivere mi ha evitato l’analista, l’omicidio, il suicidio, l’ulcera e le bollicine sul viso.

E’ il mio blog, ed è com’è perché a me piace così.

Mi piace scrivere e leggere.

E farmi leggere?

Questo ancora non l’ho capito.

Eppure sono 140 i post pubblicati, 3.500 i commenti ricevuti, 28.000 i visitatori e 54.000 le visualizzazioni.

Cinquantaquattromila, cazzo.

Visite da tutte le parti del mondo: Brasile, Grecia, Tunisia, Finlandia, Israele, Kuwait, Nepal.

Forse sono italiani andati in vacanza in quei posti, altrimenti non si spiega.

E poi ce n’è uno, uno solo, che mi legge dal Paraguay e che tutti i giorni attraversa l’Atlantico e viene a trovarmi.

Non so perché, ma vedere quella bandierina che sventola sulla pagina delle statistiche, mi fa sorridere ogni volta.

Ah, quasi mi dimenticavo.

PindaricaMente è nato il 19 luglio 2013.

Fategli gli auguri, io intanto apro una bottiglia di prosecco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutte le volte che sono nata

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La cattiva notizia è che il tempo vola.

Quella buona è che anch’io corro forte e ogni volta mi arrangio e qualcosa mi invento.

Oppure rinasco daccapo. Altrove e con altri sogni.

Oggi ho un anno in più, qualche probabilità in meno, le solite ombre che arrivano da chissà dove e dei regali da scartare.

La prima volta che sono nata mi sono ritrovata su questo pezzo di mondo sbilenco e sgangherato ad inventare regole ed eccezioni, a costruire argini con mattoncini colorati e ad immaginare il rumore del mare nelle notti in cui non riuscivo a dormire.

Ho vissuto di libri, di pagine da sfogliare e di storie appartenute a qualcun altro.

Poi, un giorno, mi sono chiusa a riccio e le spine sono rimaste tutte dentro.

La seconda volta che sono nata mi è stata regalata una scatola piena di dubbi.

Mi ci è voluto un po’ per capire che anche quello era un dono.

Sono andata avanti tra sottrazioni ed esclusioni e per apprezzare il buono, di tanto in tanto, ho dovuto inciampare nel cattivo.

Ho eliminato i saccenti, gli ipocriti e i falsi parlatori.

Ho buttato via le strette di mano mollicce, i film demenziali, i colori sgargianti, le scarpe lucide, i calcoli, le pretese e le perdite di fiato.

E ho smesso di contare il tempo in primavere perché, in fondo, ciò che conta non sono gli anni, ma come si passa il tempo fra un anno e l’altro.

Quando ho capito di non essere nata per stare sotto i riflettori, sono nata un’altra volta.

Perché il centro dell’attenzione mi imbarazza, perché non so fare tante cose, ma soprattutto non so fare finta.

Se arriva il mio momento, al massimo, sciolgo i capelli, li lascio cadere sulle spalle e sto.

Sorridendo di certi spettacoli di cui mai farò parte.

L’ultima volta che sono nata ho sbagliato epoca. O forse pianeta.

Questo tempo fatto di troppe grida e questo mondo incupito da troppe banalità, non mi somigliano.

Fosse stato per me, avrei fatto un viaggio con Cristoforo Colombo o partecipato ad un certame poetico con Lorenzo de’ Medici.

Oppure avrei giocato con la luce e le ombre insieme a Van Gogh.

La prossima volta che nasco, invece, voglio avere i capelli ricci e gli occhi verdi, crescere in una terra lontana dove capire meglio e di più e fare la restauratrice di affreschi.

Adesso, però, sono qui e qui c’è un sette-sette-duemiladiciassette da festeggiare.

Ci sono dei messaggi di auguri da leggere, dei regali da aprire e degli abbracci in cui sprofondare.

Che mi si porti, dunque, una torta e qualcosa da bere.