Primi morsi di vita

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Nessuno è tanto alto come quando si china a guardare il sorriso di un bambino.

Perché un sorriso così ti fa reggere tutto.

Gli sbagli, le mancanze, le presenze, le assenze e le prepotenze.

Ti chini e conti i denti mentre sorride, i respiri mentre dorme, i capelli mentre si pettina, i giorni mentre li vive.

Matteo, da oggi, va in giro per il mondo con un dente in tasca e un sorriso zoppo.

“Guarda zia, mi è caduto il primo dentino!”, mi dice ridendo e con la bocca spalancata.

“Stanotte arriverà san Nicola e mi porterà i soldi di carta, vero zia?”

Ed io china su di lui, a guardare quella finestra che gli si è aperta tra le labbra.

Quella fessura tra gli incisivi, dove la lingua si intrufola, si arrotola e sibila.

Matteo ancora non lo sa che in questo pezzo di universo squilibrato servono i denti. Tutti. A volte, le zanne.

Perché senza non si va mica avanti.

Non dico che dovrà adoperarli. Ma quando sarà grande, farà bene a mostrarli, i denti.

E a stringerli, quando imboccherà strade e mari sconosciuti e le labbra saranno secche e la bocca amara.

Un giorno imparerà che trentadue denti non riescono a tenere a bada una lingua, che il dente del (pre)giudizio é solo un dente avvelenato e che dente per dente é da perdente.

Quel giorno capirà anche che solo le buone parole non rompono i denti.

E che non basta averli bianchi e dritti se poi la coscienza é sporca e storta.

Poi, quando comprenderà che la vita va masticata, spero che riuscirà a gustarsi ogni sapore con lentezza.

Adesso Matteo ha quasi sei anni, capelli corvini e ribelli, gote rosse e una fossetta che parla d’infanzia.

Ha un topo di pezza sul cuscino e un drago sul comodino, disegna case sbilenche, costruisce passaggi segreti che non portano da nessuna parte, annoda uno scialle al collo per diventare un supereroe e, quando ha nostalgia del mare, fa le onde con il lenzuolo.

I suoi sorrisi raccontano di quello che ha trovato, i suoi occhi di quello che ancora cerca.

Allora io oggi mi butto un po’ di pensieri alle spalle, aspetto che si posino sulle scapole e mi riparino dal freddo.

E mi godo gli occhi neri di Matteo dentro i miei occhi seri.

Perde chi ride per primo.

(Rido. Così lui mi fa subito un sorriso sdentato ed io, invece di perdere, vinco.)

L’altra guancia

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Ho montato e rimontato queste parole nella mia testa tante volte, prima di appoggiarle qui.

Girandoci intorno come una falena su una lampadina.

Ma un cambio di premesse non può mutare la conclusione: scelgo di non perdonare perché non ne sono capace.

Non sono capace di cancellare un torto subito, dimenticare chi mi ha fatto del male, restituire stima e fiducia una volta calpestate.

Non ne sono capace. Punto.

Perché per il perdono serve una comprensione intrisa di compassione che io non ho.

E non ho nemmeno una toppa così grande da mettere sulle scuse posticce di chi ferisce sapendo che tanto verrà perdonato o di chi invoca il perdono solo per poter tornare a ferire in santa pace.

Dio mi perdonerà, é il suo mestiere, se io proprio non me la sento di giocare a fare lui.

Per gli errori che commetto non chiedo assoluzione, neanche quando la pena mi sembra esagerata.

Quelli altrui, invece, li sminuzzo, mastico, trangugio e digerisco, cercando ragioni.

Aspetto che l’amaro della delusione si addolcisca, che la ferita dell’orgoglio si rimargini e che il fardello del rancore alleggerisca il suo carico.

Poi li archivio.

Infine ricostruisco.

Perché non so dimenticare, né perdonare, ma so dare una seconda opportunità quando scorgo, tra le pieghe del pentimento, la voglia di rimediare.

Però lì, impigliato nei grovigli della coscienza, rimane sempre un frammento di invidia nei confronti di chi sa condonare un’offesa ricevuta.

E un briciolo di ammirazione verso chi si nutre di clemenza e di indulgenza e sa assolvere dal peccato.

Io porgo l’altra guancia solo a chi mi sfiora la prima con delicatezza.

Al resto, porgo le spalle.

Figli delle stelle

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Sembra un altro mondo affacciato sul mondo, il cielo immenso che si srotola sopra di me.

E se ne sta lì, al cospetto di nuvole giovani e stelle antiche.

Ogni tanto volgo gli occhi al cielo e mi affido agli astri.

Aggancio il mio carro a qualche stella e leggo l’oroscopo.

Forse é solo urgenza di conferme o forse è il bisogno tutto umano di lasciarmi stupire.

Del 2017 ho letto l’oroscopo di Breszny, di Fox, di Capitani, di Branko, quello cinese, le effemeridi e ho chiamato pure un aruspice che mi letto le viscere.

Sarà un anno di merda.

Roba da squarciare il cielo, guardarci dentro, contattare il proprietario e domandargli udienza.

Perché vabbè che la via che porta alle cose alte è piena di ostacoli, vabbè che per aspera ad astra e blablabla, ma la mia strada ormai è talmente dissestata che sembra quasi la Salerno-Reggio Calabria.

Ho Giove messo di traverso sulla carreggiata e Venere che viaggia contromano.

Ho Saturno in opposizione con tutti i suoi anelli che manco Juri Chechi.

Ho Plutone che mi intarsia le palle col punteruolo degli imprevisti e con lo scalpello dello stress.

Ed ho pianeti che mi entrano ed escono a piacimento dentro casa, senza neanche bussare.

Quindi?

Quindi quest’anno sarò più sensibile, permalosa, malinconica, capricciosa, suscettibile, mutevole, incostante, volubile, irascibile, schiva, inquieta, emotiva, testarda ed impegnativa del solito.

Perché così è scritto nelle stelle.

L’amore sarà litigarello. Non ci saranno capriole, nè frizzi e nè lazzi, ma solo discussioni, provocazioni, collisioni.

Sul lavoro sarò colta dalla solita paura di non essere all’altezza, perderò una grande opportunità economica e avrò poche entrate e tante uscite.

Per non parlare della salute, dove dovrò fare i conti con eccessi alimentari ed eccessi emotivi.

E che dire poi dell’animale guida che mi è stato assegnato?

Trattandosi del toporagno elefante dalle orecchie corte, c’è poco da dire.

E pensare che io, invece, mi sento più moscerino. A volte, anche parabrezza.

Come tutti quelli del Cancro, d’altronde.

Ma tanto io lo sarò ancora per poco.

Infatti, visto che per aggiustare un po’ il mio oroscopo dovrò disintegrare un paio di pianeti, dal prossimo anno dopo i Gemelli verrà direttamente il Leone.

Perché ci sono giochi bellissimi che iniziano con “facciamo finta che…”.

E allora il destino, almeno quello, voglio far finta di costruirmelo io.

Il mio, quest’anno, sarà fat(t)o a mano.

 

 

 

 

Parenti si diventa

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Ogni tanto, anche i sentimenti hanno bisogno di manutenzione.

Così, in questi giorni di aria tersa dal sapore di inverno, di regali da scartare e guance da baciare e propositi da realizzare, ho portato i miei affetti a fare il tagliando.

E il venticinque dicembre, con venticinque persone, ho riallacciato fili che si erano spezzati e fatto nodi grandi e stretti con nastri colorati.

In un gran guazzabuglio di legami che si intrecciano e si allontanano e si avvicinano e poi si ritrovano, quel giorno ho riabbracciato parenti che non vedevo da anni e mezzi parenti che non avevo mai visto.

Zii emotivi, zie premurose, cugini di sangue e cugine di sangue prestato.

Attorno ad una tavola imbandita di leccornie natalizie, per qualche ora, ci siamo scambiati pezzi di vita, cercando di ricomporre vite intere.

Con la mente che provava a rintracciare facce e occhi e voci nella tela dei ricordi, tra spicchi d’arancia e torrone alle mandorle.

Tutto scorre. E anche i parenti passano, dentro e fuori, scorrendo come un fiume.

Qualcuno si aggrappa ad un rovo, qualcun altro scivola via e va ad incastrarsi altrove.

Silenzio, per anni.

E poi: “scusa, mi dispiace”.

“Dispiace anche a me”.

E infine un abbraccio, che diventa una miniera di cose non dette.

Quel giorno io ero lì ad abbracciare corpi, a ritrovare bandoli, a rattopare vecchi strappi e ad intrecciare nuovi fili.

A fare festa a chi c’era e a ricordare chi non c’era.

Le mie due nonne, ad esempio. Mancavano solo loro.

Da una ho ereditato il nome che porto e la parsimonia delle parole.

Dall’altra la pazienza e la premura.

Mancavano. Ma fra ricordi, aneddoti, storie e memorie, a quella tavola, quel giorno, c’erano anche loro.

Il Natale è passato ed io sono ripartita con una valigia piena di “ci vediamo presto” e di abbracci stretti stretti.

Con il proposito di sentirci, di non perderci, di accettarci per quello che si è.

Poi, guardando un tramonto che si assottigliava all’orizzonte ho capito che niente finisce.

Tutto scorre e continua, diversamente.

E se anche i legami mutano forma e senso, allora parenti non si nasce.

No, parenti si diventa.