Il portatore di fardello

Sono stati giorni rannicchiati dietro una nuvola, senza colore, come un acquarello stinto.

Così ho provato a colorarli io prenotando un biglietto per la mostra di Van Gogh a Trieste perché avevo bisogno di luce e pennellate accese, di prospettive e di stupore.

Eppure, in mezzo a quei paesaggi dai colori luminosi, covoni di grano giallo oro e pini al tramonto, l’emozione più grande l’ho provata davanti ad un disegno fatto a matita, dal titolo “Le portatrici del fardello”.

Rappresenta donne ricurve, simbolo di fatica e sofferenza, che trasportano sacchi di carbone in un paesaggio desolato.

Van Gogh ha dipinto quadri decisamente più belli, ma la miseria disarmante disegnata in quell’opera mi ha colpito come un pugno in faccia, forse perché racconta la vita reale e i suoi protagonisti.

Un portatore di fardello l’ho poi conosciuto poche ore dopo sul treno che mi riportava a casa.

Un signore anziano ed elegante, dalle labbra sottili, gli occhi amari e l’aria arresa ha preso posto accanto a me ed ha tirato fuori dalla tasca un cruciverba. Ad un certo punto ha esclamato a voce alta “tormento!”

Stato di inquietudine e logorio, tre verticale, otto lettere.

Un sorriso, uno scambio di nomi e l’inizio di un dialogo che mi è rimasto appiccicato addosso: “Dio avrebbe potuto fare di me un benzinaio, un commercialista o un fioraio, ma non l’ha fatto” mi ha detto.

Dio ha voluto che diventasse battiloro, proprio come il maestro orafo che aveva il laboratorio in fondo alla strada dell’orfanotrofio dove lui ha vissuto per sedici anni.

Passava davanti a quella vetrina ogni giorno per andare a scuola e ogni volta si incantava a guardare le sottilissime lamelle dorate, battute con abilità e precisione, che poi diventavano piccoli oggetti decorativi, cornici, gioielli.

Pezzi unici.

Un po’ come lui che era nato in un modo e poi la vita, a furia di colpi e martellate, lo ha forgiato e fatto diventare quello che è adesso.

 Un pezzo unico e solo.

“Un bambino prende l’affetto che trova e diventa un adulto che riempie vuoti con cose sbagliate” mi ha detto ad un certo punto.

Forse è se stesso che ha cercato di forgiare via via che martellava le foglie d’oro, è se stesso che ha provato leggermente a ridisegnare, è a se stesso che ha dato una possibilità.

Chissà.

La sua stazione è arrivata in fretta e lui è sceso con la valigia vuota e il cuore pesante.

Quando, poco dopo, è passato il tizio con il carrellino pieno di bibite e snack e mi ha chiesto “Lei cosa prende?” avrei voluto rispondere “Tutto alla leggera, grazie”.

Ma ho preso un succo al mirtillo.

Parossismi

Con un’aria da commedia americana sta finendo anche questa settimana, canterebbe Dalla.

Settimana che ho affrontato con la stessa mansuetudine e pacatezza di Griselda Blanco quando va agli incontri con i narcotrafficanti di Medellín, perché improvvisamente tutti sembrano chiedere, reclamare, esigere ed imporre cose e questo sciupio di parole cozza con la mia sacrosanta pazienza, riducendola ad un filo sottilissimo.

Cose e persone che pretendono un’attenzione che non sempre ho voglia e tempo di offrire.

Così i nervi si aggrovigliano quanto i capelli e tra una parolaccia e uno sbuffo digerisco doveri, strette di mano mollicce, imprevisti e perdite di fiato che mi rendono parossistica come un vulcano islandese.

Certe eruzioni, inattese ed improvvise mi somigliano molto.

Stamattina, mentre provavo a fare ordine fra le scartoffie in ufficio, ho fatto cadere un faldone pieno zeppo di documenti che si sono sparpagliati a terra con garbo ed eleganza.

Guardando quei fogli disseminati ovunque, ho sentito il magma viscoso ed infuocato salire dall’ombelico verso gli occhi e dissolversi in uno sguardo fatto di cenere, lapilli e parole volgari, ma ho deciso comunque di tappare il cratere centrale e contenere ogni esplosione violenta con la presunzione di chi vuole imparare a gestire tutto questo deflagare.

Meglio ascoltare una canzone vecchia e scrivere una cosa nuova.

Così, mentre Dalla cantava che la luna è una palla e il cielo è un biliardo, ho guardato il sole che stava per andare a letto con un pigiama arancione e di là è apparsa la luna, ancora in vestaglia e ho pensato che in fin dei conti tutto è transeunte e il bello del tempo è che passa comunque, anche quando succede ogni cosa o non succede niente.

E che forse il nervosismo, gli sbalzi d’umore e gli istinti omicidi sono dovuti al fatto che odio le mimose, le parole vestite di ipocrisia ed intrise di retorica, gli auguri, le feste con lo spogliarellista e persino i giga in omaggio da Tim.

Oppure è tutta colpa della dieta perché la misticanza non sarà mai buona come il caciocavallo podolico alla piastra.

Dimagrire stanca.

Non è di Pavese, ma dovrebbe esserlo.

Certe notti

La mia orchidea, giustamente, si è ritrovata stanca e ha scelto di addormentarsi.

Sono stati anni di radici fragili ed aeree e di petali di un esuberante color malva, ci siamo parlate e salutate ogni giorno, ma adesso ha deciso di riposare.

Non so un giorno si risveglierà, io intanto la ringrazio per quanto ha saputo darmi.

Anch’io avrei bisogno di dormire senza conoscere l’ora esatta in cui dovermi svegliare, ma da qualche anno deve essersi guastato qualcosa nella mia attività morfeica, qualcosa che mi lascia senza fiato e senza sonno.

Un groviglio incasinato di pensieri nevrotici e stanchi che se ne stanno stipati nella mia mente come vecchie cianfrusaglie in una soffitta e che certe notti mi fanno svegliare alle tre e non mi fanno più riprendere il filo del sonno.

Così mi ritrovo a contare pecore, ripassare tabelline e rosa rosae, scrivere sonetti in pentametro giambico, ascoltare carmina burana, guardare programmi dove schiacciano il pus e allungano il pene, riflettere sulla caduta dell’impero austro-ungarico, aspettando il suono feroce e implacabile della sveglia.

Ho provato con la musica rilassante e i podcast per conciliare il sonno, con le tecniche di respirazione e le favole della buonanotte, ho ingerito melatonina e integratori dal sapore di erba urinata dai cani e seguito consigli per l’insonnia tipo andare a letto presto, ma siccome il mio cervello reputa il dormire uno spreco di tempo, nulla è servito.

Non mi resta che tentare con l’ipnosi o l’ayahuasca.

Qualcosa che mi rilassi e che il respiro torni regolare e che i pensieri non abbiano né freni, né volante e che vadano dove vogliono e che quel poco di sonno sia sgombro da incubi e che guardando la sveglia non segni le tre, ma le sei e quarantacinque perché la notte è fatta per dormire.

Potendo scegliere, sarebbe bello addormentarsi al primo sbadiglio come la mia orchidea, sentendo la pioggia che batte sui vetri e sognando vacanze, viaggi, posti lontani e tante stelle e mondi antichi e pazzi, sentire il calore del sonno e il cuore che si calma e pensare che va bene, va bene così.

Un sorriso, buonanotte e svegliarsi dopo otto ore filate.

Oppure andare in letargo fino ad aprile. Chissà al risveglio quanti chili avrei perso.

“Quid concupiscam quaeris ergo? Dormire.”

Così ha scritto Marziale in uno dei suoi Epigrammi, sorseggiando una tisana con camomilla, valeriana, passiflora, melissa e tiglio.

Poi, dopo essersi alzato 67 volte per fare la pipì, è passato allo xanax.

Baciamo le mani

A nord c’era il sogno, a sud la casa, a est il sole e a ovest il vento.

Ho deciso di inseguire il sogno quando, ventitre anni fa, dal sud mi sono trasferita al nord, lasciandomi guidare dall’istinto che è una bussola dall’ago impazzito.

Mi ha accolto una terra ospitale, piena zeppa di arte e cultura, che per un po’ ha provato ad addolcire le mie doppie con una c muta e aspirata, ma le doppie hanno impavidamente resistito perché quando parlo voglio che si sappia che vengo da laggiù.

Laggiù è uno spazio geografico indefinito, un’area periferica relegata in basso, una zona che inizia dove finisce il nord, un luogo che non esiste da solo, ma solo se riferito a un altro che lo sovrasta.

E il sud, quando smette di essere un punto cardinale, diventa stereotipo e pregiudizio.

Che gli stereotipi e i pregiudizi fossero figli della stupidità lo sapevo già, ma ne ho avuto conferma proprio in questi giorni in cui mi è venuta voglia di organizzare un weekend a Torino.

Ci sono le luminarie natalizie, la mostra di Mirò e il museo egizio da vedere, i gianduiotti da mangiare e un’amica da incontrare.

La ricerca di un alloggio si è rivelata impresa ardua e difficile perché, proprio in quel fine settimana, c’è la partita della Juve e hotel e airbnb sono stati presi d’assalto e ciò che è rimasto ha dei prezzi esorbitanti.

Alla fine però trovo una camera in un grazioso b&b dall’atmosfera provenzale e dall’arredamento retrò, così chiamo per avere maggiori informazioni su prezzi e check in.

L’host, che nella pagina di presentazione appare una ridente signora di mezz’età e si definisce torinese da generazioni, mi risponde che ha ben due camere disponibili, una ha persino un balconcino con vista parco del Valentino, quindi lascia a me la scelta.

Mi chiede dove abito, in Toscana rispondo, e concordiamo di risentirci da lì a dieci minuti, il tempo di dare un’altra occhiata alle foto delle camere e scegliere quella più adatta a me.

Quando richiamo, la conversazione si svolge più o meno così.

“Salve, ci siamo sentite poco fa, per me va bene la camera con il balconcino” dico io.

“Ma è la signora toscana che ha chiamato prima?” chiede lei.

“Si, sono io!” rispondo con voce squillante.

“Mah, eppure ha un accento meridionale” obietta lei con piccato accento sabaudo.

“E quindi?” ribatto io, leggermente incazzata.

“E quindi non ho più camere disponibili, le ho date via entrambe” sentenzia lei con tono da stronza.

Di solito ignoranza e pregiudizio camminano mano nella mano.

Eppure basterebbe fare un passo in avanti o di lato, cambiare punto di vista, scegliere un’altra prospettiva, senza paraocchi, senza punti cardinali, superando le colonne d’Ercole, anche quelle mentali.

“Mavaffanculova!” le ho risposto.

Perché il dente del pregiudizio è solo un dente avvelenato, ma trentadue denti non riescono a tenere a bada una lingua.

E comunque, la coppola, la lupara ed io andremo lo stesso a Torino perché è una città bellissima ed elegante e soprattutto perché si è liberata una stanza in un hotel in centro, senza balconcino, ma con vista mole antonelliana.

Baciamo le mani.

Riproduzione casuale

Non sopporto più la gente.

Però mi piace la musica perché mi ricorda gente che mi piace.

Ascolto musica antica, oppure nuova se suonata bene.

Alterno canzoni in cui c’è il duro dentro e cambi continui di ritmo con altre più morbide, armoniche, rotonde.

La mia preferita rimane la musica classica, quella alta che solleva i pensieri e li porta lontano dal giorno pieno di cose fatte e da fare, sbagli e compromessi.

Pura, strumentale, senza lo sporco di una voce.

Bach, Beethoven, Mozart, Puccini. Oppure la Suite bergamasque di Debussy che ascolto la domenica mattina, quando fuori piove e la pioggia e la musica sono proprio un binomio perfetto per le giornate d’autunno.

Mi piacerebbe molto saper leggere la note di uno spartito e suonare il violino o l’arpa.

Oppure l’armonica a bocca.

Qui, nella pineta vicino casa mia.

Non in quella stanza con il soffitto viola dove gli alberi, gli alberi infiniti sono tutti da immaginare.

Sono cresciuta a pane e rock and roll con i Guns N’ Roses e i Metallica, Madonna e i Pink Floyd, i Doors e i Led Zeppelin e gli unici graffi che ricordo sono quelli del vinile, quando saltava la puntina.

Le canzoni di Battiato poi potrei ascoltarle mille altre volte e la sensazione rimarrebbe identica ed indescrivibile perché non c’è mai retorica nella bellezza e neppure in ciò che la genera.

Anche adesso, mentre scrivo, ascolto “E ti vengo a cercare” e penso che siano le parole più belle sentite oggi.

Ci sono canzoni che mi circolano dentro come fa il sangue, mi sveglio e le trovo lì ad aspettarmi e non so nemmeno da dove arrivino e perché si aggrappino alla mia carne con tanta insistenza. Ci sono e basta.

Quando non ho nulla da dire lascio parlare loro, così a volte guido e ascolto The power of love dei Frankie Goes to Hollywood o Child in time dei Deep Purple e anche se sono su una strada buia e piena di buche, la sensazione è di essere sulla Route 66.

Lei poi non lo sa, ma Purple rain di Prince mi ha aiutata tante volte. E’ questo che fanno, certe canzoni.

E può una canzone racchiudere una vita?

Sì, la mia è quasi tutta in quei cinque minuti e sei secondi di Pecorella di Lucio Dalla perché certe cose di me lui le racconta meglio.

Oggi non sono nostalgica, sono solo in riproduzione casuale, anche se quella delle mie playlist è la cosa meno casuale che io conosca.

Di poche parole

Pare che io abbia vinto un premio.

Un premio letterario, addirittura.

Io che non ho mai vinto nulla in vita mia, se si esclude il primo premio alla lotteria della Befana, qualche anno fa. Un ombrello.

Una volta poi, ad una sagra, una di quelle dove è impossibile non vincere qualcosa, a me è toccata la paletta schiaccia mosche.

Ecco perché quando mi hanno comunicato che mi ero classificata prima ad un premio letterario nella sezione micro racconti e che ci sarebbe stata la cerimonia di premiazione in una città d’arte, in un palazzo d’epoca e in una sala con affreschi del ‘600 ho pensato che forse una mano di stucco sarebbe servita anche a me, così la prima cosa che ho fatto è stato spendere tipo 130 euro in creme antirughe.

Dopo aver attraversato la scena e goduto di questi quindici minuti di celebrità, sono tornata a nascondermi dietro una nuova quinta e ad indossare i segni della penombra con la grazia di chi ci è abituato.

Ho partecipato solo perché si trattava di elaborare un piccolo racconto utilizzando 100 parole e mentre scrivevo, cancellavo, limavo, sminuzzavo e tagliavo, ho capito che sperperare parole è un gran peccato.

Con il tempo si impara a scrivere per sottrazione, a gestire il servibile e ad eliminare l’evitabile.

Non è facile accorciare e sfoltire pensieri, togliere orpelli e rimuovere ridondanze, ma le quattro cose che contano davvero nella vita si possono dire anche con quattro parole.

La sintesi è un percorso al contrario, un ritorno all’embrione, una perdita che sa di conquista perché certe brodaglie di frasi senza fine pretendono un’attenzione che non sempre si ha voglia e tempo di offrire.

Ho dedicato questo premio a chi mi vuole bene perché sa e a Matteo perché sappia.

Sappia dire tanto con poco e preferire la sintesi allo sperpero di parole.

E nelle parole sappia cercare la densità perché quelle di poco peso sono inutili, non leggere.

Conoscere ed usare le parole più accurate, quelle che respirano e pulsano e sono trapassate da capillari, è privilegio di chi di parole si nutre.

Io mi nutro anche di carboidrati e di tiramisù, ma sto cercando di smettere.

Il degenere umano

Se lo schifo avesse un volto, avrebbe quello dei sette stupratori di Palermo.

Ma anche delle sedicimila persone che hanno cercato in rete, guardato e condiviso il video dello stupro.

Per non parlare dei genitori degli stupratori che giustificano tutta questa enorme montagna di merda come se fosse un’ingenua marachella.

E’ tutto così agghiacciante.

C’è una visione talmente distorta della donna che viene più volte definita “carne”, come in macelleria.

“Cento cani sopra una gatta” è poi il racconto da brividi di uno dei sette violentatori.

Cento cani sopra una gatta.

Cento cani sopra una gatta.

Cento cani sopra una gatta.

Questa frase lurida e violenta mi tormenterà per sempre.

In queste cinque parole c’è l’incapacità di provare umanità, il fallimento della società e della famiglia, la mancanza di educazione, l’assenza di cultura e di valori, l’esaltazione degli istinti più bassi, il tentativo becero di colpevolizzare la vittima.

E basta chiamarli mostri, malati, bestie, vermi. Stupratori, quello sono.

I video che circolano in questi giorni sui social, dove si vedono le loro facce, i nomi e i cognomi, gli account fake creati per fare hype e raccattare qualche like, i post di insulti alla vittima perché un po’ se l’è cercata, la gogna pubblica, le richieste di castrazione chimica, meglio ancora un taglio netto, zac un colpo di accetta e il problema è risolto, forse andrebbero anche violentati in carcere, inculati ripetutamente da un pisello grosso così, perché solo in questo modo capirebbero il male che hanno fatto.

E’ tutta una gara a chi invoca la punizione più violenta, quando il punto è la violenza subita dalla ragazza, rea solo di essere femmina.

Che ne sarà di lei? Cosa è rimasto di lei dopo che il suo corpo e la sua anima sono stati fatti a brandelli?

“Gridavo basta, ma loro ridevano e continuavano.”

Sette e una.

Un branco, una preda.

Cosa mi auguro per lei?

Che il suo caso non abbia un epilogo simile a quello di Firenze, dove sono stati tutti assolti perché “il rapporto c’è stato, ma non hanno capito che la ragazza non voleva”.

Eppure aveva detto “basta, smettetela”, più volte.

Forse è da lì che bisognerebbe cominciare.

Dal fatto che solamente sì significa sì. No invece significa sempre NO.

A qualunque età, in qualsiasi luogo e con qualunque tasso alcolemico.

Dieci anni dopo

Sì, sono ancora qui.

Sono qui e scrivo quando posso, quando mi viene in mente qualcosa che valga la pena, quando trovo tempo per me e per i miei pensieri.

Lo faccio da dieci anni, da quel 18 luglio 2013 e da quel timido Hello world! scritto in un momento in cui il blog non mi serviva assolutamente a nulla e proprio per questo mi sembrava essenziale.

Qui ho raccontato del lento e maestoso cielo della Sicilia, della pazienza di mio padre, della passione per la cucina di mia madre, degli occhi bruniti di Matteo, di alcuni libri e della mia casa arredata di ricordi, di buste di patatine scadenti divorate con i piedi allungati sul tavolino, di me e delle corazze messe attorno alla tenerezza.

Ho commentato le cose di questo mondo e talvolta anche dell’altro, ho scoperchiato vasi di Pandora e ricordato storie di treni e di binari morti, sono stata il bandolo e la matassa, ho creato intrecci di parole e tessuto legami inevitabili perché la scrittura lega le parole alle persone e chi scrive si lega a chi legge.

La moda dei blog è passata da un pezzo, adesso ci sono i social e altri luoghi virtuali dove scrivere, ma per me questo rimane il posto migliore per tenerci i ricordi.

In questo diario di bordo sono finiti i miei sogni e i miei demoni, i pensieri più stizzosi e le riflessioni più serene, le travi e le pagliuzze, le sciocchezze e le premure.

Scampoli di tempo e di vita e qualche parola presa in prestito per raccontare questo tempo e le attese della vita.

Le parole non si stancano mai, io ogni tanto sì e allora mi fermo per respirare piano, per guardarmi intorno e vedere cosa succede.

Ringrazio di cuore chi, dieci anni fa, mi ha spronato a creare un blog tutto mio e chi, in questi dieci anni, è passato ogni giorno da qui a leggere pensieri, parole e turbamenti di una mente pindarica.

Chi è andato via stanco di aspettarmi e chi non si è mosso sapendo che tanto, prima o poi, torno.

E’ stato bello sapermi letta.

Se dovessi scrivere una lettera alla me di dieci anni fa, un po’ come la Ferragni quando scrive a se stessa bambina, mi limiterei ad un solo rigo: a volte avrai culo, a volte no.

Quindi adesso chiudo gli occhi, esprimo un desiderio per i prossimi dieci anni sperando in almeno due o tre culi in più, e soffio su queste dieci candeline.

Ex abrupto

La prossima vita voglio avere gli occhi verdi e i capelli ricci.

Anche le spalle larghe, lo spirito adatto e la leggerezza di una domenica senza pretese.

Magari la prossima vita farò davvero la benzinaia o addirittura l’esploratrice o persino la pittrice.

Non sarei più un po’ polvere e un po’ cemento armato, ma solo un giornale con molte pagine e poche di cronaca.

Nella prossima vita voglio rinascere Cioè.

La cosa più importante sarebbe nascere su un’isola, il resto si vedrà.

Che in questo mondo squilibrato ci si finisce senza neppure essere stati interpellati e si nasce la mattina e si muore la sera, anche se sembra tutto uguale a ieri.

È per rinascere che siamo nati, ogni giorno -scrive Pablo Neruda.

Così spesso ci si rifà daccapo, ci si demolisce e ci si ricostruisce, pezzetto dopo pezzetto, perché la rinascita profuma di coraggio e di possibilità, di preludio fausto e di premessa felice.

Ci vuole tempo a ricostruire ciò che si rompe in un attimo. Basta un niente, un’impressione sbagliata, un silenzio in più, una parola in meno e crolla tutto all’improvviso, inaspettatamente, senza preamboli, d’emblée, di botto, ex abrupto.

E’ un gioco pericoloso e bello quello che la coscienza gioca con se stessa fino ad ingannarsi. Ma poi si torna a sé, come fa l’araba fenice quando diventa felice e si va avanti sottraendo ed escludendo.

E per farlo si cerca la magia, anche se non la si trova facilmente.

Quella si nasconde nei posti. Alcuni sono vicini, come la spiaggia di Fetovaia o San Galgano o la Val d’Orcia, altri lontani come quei posti del nord, fatti di pietre e mare scuro che batte sugli scogli e fa la schiuma bianca come la birra o come certi posti del sud dove il caldo sfuma i colori e l’erba è così fresca che ti viene voglia di levarti le scarpe e sentirla viva che ti cresce sotto e senti il sale dei due mari che si incontrano nell’aria che respiri e pensi a Hemingway, a Melville, a Verga e a tutte le pagine di mare e terra e scogli duri e vite lontane e quando sei lì davanti senti che le due magie si mischiano, quella delle pagine e quella dei posti e coincidono e si sommano dentro di te e lì, proprio lì, in quel preciso momento, respirando aria che sa di sabbia e di sale e calpestando l’erba verde che nasce sotto i piedi, ti demolisci e ti ricostruisci, pezzetto dopo pezzetto.

Scegliendo la trama, aggiustando il finale.

Nella prossima vita voglio essere un gatto che si acciambella su una sedia a dondolo e guarda i treni passare e sorride quando fanno ciuf ciuf.

E se invece, per una volta, rinascessi fungo velenoso?

E’ complicato

Il motto della mia casata è: come è difficile farla facile.

Nello stemma araldico si sono cinque palle, un vestito a pois e il sottotitolo in oro sul gonfalone è “cu mangia fa muddichi”, per il ramo siculo della mia famiglia.

D’altronde è molto complicato vivere con una testa complicata che fa pensieri complicati e che talvolta annega, con discreto piacere, in cose di poco conto.

Perché ho il talento innato di appassionarmi alle quisquilie, alle inezie, alle sciocchezze che più sono sciocche più io le approfondisco e le sviscero e mi ostino e mi tormento.

Complico cose semplici, ma riesco a complicare anche quel che appare di per sé già complicato.

Per qualche assurdo corollario alla legge di Murphy, a me quel che cade, cade male e si rompe, quel che cerco non si trova, quel che aspetto non arriva, piove appena esco dalla parrucchiera, smaglio i collant appena messi, la caldaia va in blocco quando sono sotto la doccia, insaponata dalla testa ai piedi.

E poi faccio sempre tanti ragionamenti, ho i miei pensieri, fissazioni, fisime, ubbie, cazzi e mazzi.

Qualcuno, ogni tanto, mi fa anche dei complimenti per questo, non rendendosi conto che una mente complessa e contorta è un po’ come avere delle grosse tette: tutti te le ammirano, ma nessuno sa quanto sia scomodo andarci in giro.

Io ci provo a semplificarmi l’esistenza, a limare e alleggerire, a lasciare che le cose vadano dove hanno deciso di andare, indipendentemente da me.

Ma ogni volta che imbocco una strada corta e diritta o prendo una scorciatoia, puntualmente mi perdo e mi ritrovo in meandri senza direzione, in grovigli senza capo né coda, in dedali senza uscita.

Come quando lo scorso anno andai a fare la Merry walk, una camminata natalizia di 7 km tutta in salita sulle colline versiliesi e nel mezzo del cammin mi ritrovai sulle Alpi Apuane, ché la diritta via era smarrita.

E pensare che avevo partecipato solo perché all’arrivo ci sarebbe stato da mangiare e da bere e soprattutto perché il ritorno sarebbe stato tutto in discesa.

La cosa si può riassumere così: sono più ingarbugliata del participio passato del verbo splendere.

Servirebbe un tutorial che mi insegnasse a semplificare. O a impastare le robe contorte nella torta di mele.

Inoltre vorrei aggiungere un altro paio di palle al mio gonfalone e cambiare il motto della mia casata in “Ma che volete da me?”

Quindi, se interessati e con requisiti, andate da mio padre e chiedete la mia mano.