Tutto poi si riduce ad avere qualcosa a cui pensare.
I pensieri, comandano loro.
Di alcuni cerco di ricordare dove cominciano e dove finiscono. Altri sono come lo scotch di cui è impossibile ritrovare il capo.
Io penso perché ci sono giorni che sembrano fatti apposta per pensare.
O forse perché se penso, sono. Credo.
Così faccio pensieri arruffati, senza punteggiatura, appallottolati come calzini buttati in giro qua e là.
E vado un po’ dove capita.
Gite mentali.
Le chiamo così da quel giorno, quando il professore di filosofia del liceo mi mise davanti la Repubblica di Platone.
“Apri il libro a pagina 314 e leggi a voce alta”, mi disse.
E mentre io leggevo a voce alta il mito della caverna, lui passeggiava su e giù per l’aula come un peripatetico.
Apparentemente non faceva nulla se non seguire il filo dei suoi pensieri.
Poi andò alla lavagna e scrisse: “La filosofia insegna a pensare. A pensare e comprendere. A comprendere e diventare migliori. Perché avere una bella testa é molto di più che avere solo una testa”.
Chiusi il libro e capii che, in quella storia di catene, prigionieri ed ombre sul muro, c’ero già dentro e non sapevo più come uscirne fuori.
Avevo quindici anni e quelle frasi mi rimbombavano in testa, scivolavano via, una in fila all’altra, come gli anelli di una catena.
E ad ogni anello mi si apriva un mondo.
Quel professore schivo e gentile, colto e severo, capace di fare le nottate per chiosare un passo sconosciuto di un filosofo più sconosciuto ancora, l’ho amato molto.
Per anni sepolto fra pile di libri, da qualche giorno è sepolto fra filari di cipressi.
E a me, oggi, viene da dirgli grazie.
Per avermi insegnato, attraverso la filosofia, che tutto ciò che di meglio era stato pensato e scritto dagli uomini, era stato pensato e scritto da quegli uomini lì.
Come Talete di Mileto che osservava gli astri con lo sguardo rivolto verso il cielo e a chi gli domandava se fosse venuta prima la notte o il giorno, rispondeva che era precedente la notte, di un giorno.
O Pitagora che per descrivere il mondo usava il linguaggio della matematica, convinto che il numero fosse l’ἀρχή, il principio e l’essenza di tutte le cose.
E poi c’erano i Sofisti con la loro kalokagathìa, l’unione del bello e del buono. “Tutte le qualità buone e belle devono essere tenute in esercizio e la saggezza non meno delle altre”, dicevano.
E c’era Zenone con i suoi paradossi, Socrate con il suo non sapere e Kant che, filosofeggiando sulla ragione, si poneva le solite tre domande che mi faccio spesso anch’io: che cosa posso sapere? Che cosa posso fare? Che cosa ho diritto di sperare?
Oppure Hegel che, per arrivare alla verità, scomponeva e componeva i problemi del mondo in tesi, antitesi e sintesi.
O Schopenhauer che indagava sul dolore e su quell’intervallo fugace ed illusorio che é il piacere.
Tutti questi uomini mi hanno insegnato che le domande sono più importanti delle risposte.
Che è meglio avere un dubbio, che una dubbia certezza.
Che non bisogna mai smettere di dire e ripetere, mescolare e sciogliere, tagliare e aggiungere, comporre e scomporre, procedere e inciampare, cominciare e poi finire, ricominciare e poi finire.
E che, nella vita, bisogna distinguere fra retori, bravi a parole e venditori di fumo.
Ma, soprattutto, mi hanno insegnato a pensare.
Nonostante il tempo e nonostante il mondo.
All’esame di maturità classica portai Italiano come prima materia e Filosofia come seconda.
“Se Platone vedesse come ci siamo ridotti oggi, ritornerebbe nella caverna. E si murerebbe”, mi disse il professore durante l’interrogazione.
“Tu, però, non smettere mai di pensare. E’ questo che non ti perdonano.”
Non c’è rimedio, infatti, ad una bocca che tace e a due occhi che pensano.
(Ciao prof.)