Di facili costumi

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Ci vorrebbe uno come Hemingway.

Uno di quegli scrittori vecchio stile che prendevano appunti a matita su un taccuino in pelle nera.

Uno di quelli che carpivano conversazioni e confidenze con l’aria di chi non ascolta e non é là per ascoltare.

Ecco, ci vorrebbe uno così per raccontare la variegata umanità da spiaggia. Per riferire l’essenziale banalità di certi discorsi fatti sotto l’ombrellone. Per descrivere l’untuosità di certi corpi marmorei o il pallore impiegatizio di certe cosce cellulitiche.

Per spiegare che è un’impostazione di default del cervello femminile quella di correre ai ripari sempre all’ultimo minuto. Di affrontare la prova costume come fosse una prova di coraggio. Di digiunare come Pannella per eliminare cuscinetti e maniglie dell’amore. E tentare di assomigliare, anche lontanamente, alle modelle di Calzedonia. A quelle donne geneticamente modificate. A quelle donne di facili costumi (da bagno).

Storia vecchia, scontata, ripetitiva e quasi banale quella della prova costume.

Ed è inutile fare finta di niente e nascondere la testa sotto la sabbia.

Io la prova costume non l’ho superata. Nemmeno quest’anno.

Ho saltato i primi dieci capitoli e, comunque, non l’avrei superata neanche fosse stato un quiz a crocette con le soluzioni in fondo alla pagina. E siccome è l’unica prova in cui non è ammesso copiare io, alla fine, l’ho presentata in bianco.

Il costume, quello no, l’ho scelto nero. Si sa, il noir sfina.

Poi, lontano dai pasti e trattenendo il fiato, sono andata al mare.

Il bianco gallina morta delle gambe mi ha fatto imbarazzare. La forma a pera ma anche un po’ a clessidra del resto mi ha fatto sobbalzare.

Ho assunto, quindi, la posizione dell’otaria spiaggiata e, per consolarmi, ho mangiato un gelato.

Ed ho osservato la mia vicina di ombrellone. Quella che, per spararsi certe pose ginecologiche, pare stia digiunando da ormai due settimane.

Moriremo entrambe, ma io sarò più felice.

 

 

 

 

Voli pindarici

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Ho costretto i miei pensieri a compiere arditi voli pindarici.

Tutto è cominciato dalla parola “compleanno” e, chissà come, mi sono ritrovata a ragionare sul concetto di “abitudine”.

Nel mezzo, riflessioni fra il serio ed il faceto.

Pensieri in libertà, che si rincorrono l’un l’altro senza un apparente filo logico.

Brainstorming casalingo, colpa di un’afosa domenica di luglio.

Odio i compleanni.

E man mano che le candeline da spegnere aumentano, li odio sempre di più.

Non c’entra nulla il tempo che passa, non sarei quella che sono senza gli anni che ho vissuto.

E’ proprio l’idea di dedicare un giorno dell’anno al proprio genetliaco che trovo bizzarra.

Mi ha sempre messo tristezza pensare alla torta, alla festa, agli invitati. Ricevere auguri per tutto il giorno, aprire regali, sforzarmi di sorridere e sembrare contenta di avere un anno in più.

Insomma, festeggiare il compleanno, per me, è un ossimoro!

 Un’altra cosa che non sopporto sono gli ospedali.

Quell’odore di alcool e di malattia, quelle stanze asettiche, la sofferenza che vi si respira.

Gli ospedali rappresentano in pieno il senso di precarietà della vita.

La caducità del fisico e della mente.

 Non potrei vivere lontano dal mare. Forse in una vita precedente devo essere stata una cozza attaccata ad uno scoglio, perché niente più del mare, dell’acqua, della sabbia, riesce a darmi tanta serenità.

Mi piace quando è placido e quando è burrascoso. Mi piace al tramonto. Mi piace il mare d’inverno.

Lo ascolto, lo osservo, medito e cerco risposte. Ho il mare dentro.

 Da grande avrei voluto fare la criminologa. Studiare i segreti di un crimine, approfondire gli aspetti antropologici e psicologici dell’uomo che commette un reato, capirne il movente e lo stato emozionale. La mente umana mi ha sempre affascinato, investigare sulla mente criminale ancora di più.

Avendo poi fatto tutt’altro lavoro, ripiego con le serie televisive incentrate sull’argomento, CSI, Criminal Minds, NCIS . E mi calo nel ruolo.

 Come me, anche mio fratello ha un nome spagnolo. Si chiama Pablo.

Non si potrebbe chiamare diversamente, ha proprio la faccia da Pablo.

Eclettico come Pablo Picasso, rivoluzionario come Pablo Escobar, crepuscolare come Pablo Neruda.

Questi sono i versi di Neruda che più preferisco. Forse non sono suoi, ma di una certa Martha Medeiros. Poco importa, sono comunque bellissimi e parlano dell’abitudine:

Lentamente muore chi diventa schiavo dell’abitudine, ripetendo ogni
giorno gli stessi percorsi, chi non cambia la marca, chi non
rischia e cambia colore dei vestiti, chi non parla a chi non conosce.
[……………]
Muore lentamente chi evita una passione, chi preferisce il nero su
bianco e i puntini sulle “i” piuttosto che un insieme di emozioni,
proprio quelle che fanno brillare gli occhi, quelle che fanno di uno
sbadiglio un sorriso, quelle che fanno battere il cuore davanti
all’errore e ai sentimenti.

[……………]
Insomma, tutto è cominciato dal compleanno e, attraverso una serie di voli pindarici, ho planato sull’abitudine.