Ci vorrebbe uno come Hemingway.
Uno di quegli scrittori vecchio stile che prendevano appunti a matita su un taccuino in pelle nera.
Uno di quelli che carpivano conversazioni e confidenze con l’aria di chi non ascolta e non é là per ascoltare.
Ecco, ci vorrebbe uno così per raccontare la variegata umanità da spiaggia. Per riferire l’essenziale banalità di certi discorsi fatti sotto l’ombrellone. Per descrivere l’untuosità di certi corpi marmorei o il pallore impiegatizio di certe cosce cellulitiche.
Per spiegare che è un’impostazione di default del cervello femminile quella di correre ai ripari sempre all’ultimo minuto. Di affrontare la prova costume come fosse una prova di coraggio. Di digiunare come Pannella per eliminare cuscinetti e maniglie dell’amore. E tentare di assomigliare, anche lontanamente, alle modelle di Calzedonia. A quelle donne geneticamente modificate. A quelle donne di facili costumi (da bagno).
Storia vecchia, scontata, ripetitiva e quasi banale quella della prova costume.
Ed è inutile fare finta di niente e nascondere la testa sotto la sabbia.
Io la prova costume non l’ho superata. Nemmeno quest’anno.
Ho saltato i primi dieci capitoli e, comunque, non l’avrei superata neanche fosse stato un quiz a crocette con le soluzioni in fondo alla pagina. E siccome è l’unica prova in cui non è ammesso copiare io, alla fine, l’ho presentata in bianco.
Il costume, quello no, l’ho scelto nero. Si sa, il noir sfina.
Poi, lontano dai pasti e trattenendo il fiato, sono andata al mare.
Il bianco gallina morta delle gambe mi ha fatto imbarazzare. La forma a pera ma anche un po’ a clessidra del resto mi ha fatto sobbalzare.
Ho assunto, quindi, la posizione dell’otaria spiaggiata e, per consolarmi, ho mangiato un gelato.
Ed ho osservato la mia vicina di ombrellone. Quella che, per spararsi certe pose ginecologiche, pare stia digiunando da ormai due settimane.
Moriremo entrambe, ma io sarò più felice.