Ventiventi

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La fine dell’anno arriva e si adagia stanca sui buoni propositi e sui miei occhi distratti.

Non è tempo di bilanci, di somme e di sottrazioni.

E poi come si racconta un anno in cifre? Quanto fa in meno un errore? E un timore conta più di un tormento? E se ci sommi due abbracci e quattro risate si va in positivo?

Per fare un anno non bastano i numeri, ci vuole altro.

Servono delle immagini da raccontare a parole, dei volti da accarezzare, qualche guado da attraversare, una voce che fa da cuscino, un camino che scioglie i pensieri, un orizzonte che raddrizza le storture e poi chiacchiere e bevute per alleggerire le noie del quotidiano.

Comunque sia, questo ormai è andato. Avanti un altro.

Il ventidiciannove lo lascio qui, con tutte le sue cose giuste e sbagliate e la consapevolezza di non avere particolari rimproveri da farmi.

Porterò nel ventiventi solo quello che mi serve, aria e luce e qualche voglia.

Di partire sapendo di tornare, di sognare sogni che è meglio che restino tali, di parlare sperando di essere ascoltata, di ascoltare perché fa bene e di ascoltarmi perché mi serve.

Continuerò ad arrabbiarmi con chi si crede furbo, con chi non ha mai tempo, con chi dà tutto per scontato, con chi usa a sproposito il superlativo assoluto e con chi mette virgole dove ci vorrebbe un punto.

Dirò sempre le parolacce mentre guido, avrò ancora paura di disturbare e insisterò a mangiare la pizza con le mani.

Cercherò di essere pronta ad accogliere tutto ciò che non mi aspetto perché ventiventi, in fondo, non è una semplice ripetizione di numeri.

Può essere una piccola feritoia, una finestra o una grande porta, dipende da quello che vogliamo farci passare e da quanta roba vogliamo farci transitare.

A me, stavolta, piacerebbe alleggerire il carico e traghettare di là solo scemenze inutili e pensieri inconcludenti.

Ma la leggerezza, si sa, è una medaglia pesante da portare e prima bisogna vincerla.

Nel frattempo, come ogni fine anno, sono andata sbirciare l’oroscopo di Brezsny.

Per il segno del Cancro scrive così: “Nei negozi online trovi tutto quello che cerchi – dice l’economista Paul Krugman – ma nelle librerie trovi anche quello che non cerchi. Mi sembra un buon principio da applicare a tutti gli aspetti della tua vita. Non c’è niente di male a sapere esattamente cosa ti serve. Ma a volte, come in questo momento, dovresti metterti in condizione di trovare quello che ancora non sai di volere.”

E allora ciò che vuol venire, verrà.

Intanto salgo su un aereo, chiudo gli occhi e li riapro davanti ad un arancino al ragù.

E buone feste a chi passa da qui.

Vita, morte e miracoli

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Ho passato più tempo in chiesa in quest’ultima settimana che nel resto della mia vita. Se si esclude il barocco siciliano, ovviamente.

Un funerale ogni tanto fa bene. Mi ricorda cosa vuol dire essere viva, mi riporta con i piedi per terra, perché quando si seppellisce qualcuno anche la rata del mutuo acquista un altro valore.

Due, invece, sono troppi.

Troppe guance da baciare, troppi discorsi a cui annuire, troppe parole che rimangono di traverso perché troppo fresco è il dolore.

E’ morto il fratello di una mia collega. Quarant’anni. Un incidente stradale. Non è necessario avergli voluto bene. Mi è bastato voler bene a sua sorella.

Una perdita che mi ha spaventato, stordito e mi ha lasciato monca.

Perché la morte coglie sempre di sorpresa, è una roba che non ti aspetti, eppure poco più in là della morte c’è altra vita, ancora altra vita.

Ho letto da qualche parte che gli antichi greci non scrivevano necrologi. Alla morte di un uomo si ponevano solo una domanda: “Era capace di passione?”

Sì, chi ha conosciuto Marco dice che la risposta sarebbe stata sì.

E’ morto mio nonno. Novantasei anni. L’ultimo che mi era rimasto.

E’ stato come togliere la calce ad un muro di mattoni. Un tempo era bello e solido, un riparo sicuro quando fuori soffiava troppo vento. Adesso il muro è crollato e fa un po’ freddo.

Sapeva di pino silvestre, mio nonno. Ha fatto la guerra in Libia, la fuitina con mia nonna e qualche miracolo profano. Quindi a lui che una cosa era impossibile non potevi dirlo.

Ricordo che quando ero piccola, ogni domenica, tirava fuori dalla tasca del vestito buono le mentine, quelle nella scatola di latta. Per viziarmi bastava quel gesto, silenzioso e complice.

E poi tante premure, tanti discorsi pieni di cose taciute, ma capite, tante risate.

Come quella volta che gli dissi di mettersi in posa perché gli avrei fatto una foto e lui mi rispose: “Ma cosa ci fai con un telefono che fotografa?”.

Ho fatto dei ricordi e mi ci sono arredata il cuore, ecco cosa. E alcuni servono a sorridere quando poi si rimane soli.

Oltre alle foto restano parole, emozioni, sguardi, consigli, insegnamenti dati con l’esempio e altre cose che mi porto dentro. Per cui forse non è morto.

Un principio della fisica dice che niente si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma.

E’ applicabile anche alle persone?

Ora ci penso.

MMXVIII

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L’inizio dell’anno profuma sempre di possibilità.

La fine, di bilanci.

Nel mezzo ci sono le stagioni che si succedono incessantemente, le somme e le sottrazioni.

La mia contabilità non è fatta di logaritmi, derivate ed integrali, ma di quelle quattro semplici cose che bastano per campare.

Perché penso che non si ha bisogno di molto se un bambino ti sorride, se tolti i rami secchi si vede di nuovo il cielo, se hai un abbraccio in cui sprofondare, se somigli a ciò che dici di essere, se sai passare sopra a cose su cui prima inciampavi, se hai una casa, un plaid, un divano e un vecchio film in bianco e nero e delle cose in testa che forse non sono nemmeno progetti, ma per un po’ ti permettono di sognare.

E i sogni, si sa, non vanno a bilancio.

A noi malinconici succedono cose strane quando si avvicina la fine dell’anno o la fine di un libro o la fine di un viaggio.

Ricordiamo tutto insieme.

Quest’anno è passato, in un modo o nell’altro.

Ci sono stati dei colpi di fortuna e dei colpi e basta, qualche inciampo, dei pensieri di troppo e un po’ di abbracci buoni.

Ho iniziato un lavoro nuovo, ho imparato cose che credevo di sapere già, ho conosciuto persone che mi hanno accolto con gentilezze a sorpresa e sorrisi di cui avevo bisogno.

Ho perso un’amica, dopo aver trascorso giorni ed ore ad infonderle coraggio tra i corridoi di oncologia, un posto dove anche l’aria prova dolore.

Ho preso aerei, perso treni, imboccato scorciatoie e riconosciuto il cartello “strada senza uscita” all’inizio di una nuova via. Mi sono fermata sul ciglio per un po’ e poi ho ripreso a camminare. Ho visto posti che sognavo da una vita intera di vedere, ho osservato, annusato, scoperto e riso. Poi sono tornata. Perché è per questo che si va, no?

Ho letto centinaia di pagine, scritto migliaia di parole, realizzato qualche desiderio, lanciato sassi e schivato, laddove ho potuto,  le solite umane meschinerie.

Adesso mi tengo stretto quel poco che ho e spero di riuscire a portarlo con me nell’anno che verrà.

Insieme a qualche dubbio, alla salute e alla frittura di pesce. Non mi serve altro.

E sono pronta ad accogliere quel che non mi aspetto.

Perché magari non succederà nulla, ma potrebbe. Ed è questo quello che conta.

Quindi, auguri di cuore a chi passa da qui e l’ultimo dell’anno chiuda la porta.

Era di maggio

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Per guardare altrove non ci vuole poi tanto.

Basta voltarsi e stare in silenzio, che a maggio solo la primavera dovrebbe poter dire qualcosa.

L’ho aspettata sotto la pioggia e l’ho vista incedere con ostinata perseveranza verso un inverno che si era affezionato troppo a questo spicchio di mondo.

E’ arrivata così, esagerata, spettinata e strafottente, come una donna che deve lottare ogni volta per ottenere le cose.

I giorni di letto e temporali hanno lasciato il posto a finestre aperte, vestiti colorati e pensieri leggeri.

Perché quando c’è il sole anche questo mondo sembra quasi un altro mondo.

La primavera è una confezione grande di sentimenti misti.

E’ lei che mi insegna a camminare lentamente, tanto non devo andare da nessuna parte perché ci sono già; a guardare un tramonto senza saper dove inizio io e finisce lui; a tagliere i rami secchi per vedere di nuovo il cielo; a smettere di fare le cose giuste e a cominciare a fare le cose belle; a cancellare il senso di colpa e a sfruttare il senso di attimo che fugge; a sorvolare con leggerezza su situazioni e persone che adesso non pesano più, dimenticando quanto spessore avessero un tempo; a scrollarmi di dosso coperte, maglioni e cose da fare, andando avanti sottraendo; a rivestire di leggerezza il piombo e ad infondere coraggio agli altri per ricordarmi di averne.

A maggio cambia tutto, dentro e fuori.

Dentro ci si nasconde un po’, se serve.

E d’improvviso c’è pace, equilibrio e tepore.

E non si capisce bene il perché, visto che la vita è quella di sempre, casuale, incasinata, improvvisata e caotica, ma è come se fosse arrivata la primavera anche lì e l’aria fresca della mattina avesse portato via le scorie di ieri.

Fuori ci sono le vetrine colorate del centro, i gelati da prendere all’aperto, le passeggiate in compagnia, i capelli a chignon, le bouganville che esplodono, il profumo del gelsomino che consola e l’aria che sembra essere senza peso e senza fatica.

Finalmente, penso.

Ci sono mesi che iniziano in un modo e finiscono chissà come. Maggio mi piacerebbe continuasse così.

Perché maggio è il mese che mi fa reggere tutto, gli sbagli, le urgenze, le mancanze, le incongruenze di tutto un anno, di tutta una vita.

Poi arriverà il caldo spudorato dell’estate e quando tutte le foglie autunnali saranno cadute, soltanto allora sarà inverno e varrà la pena aspettare la primavera.

Forse le stagioni le hanno inventate per questo, per non farci annoiare.

Intanto stamattina mi sono svegliata con una domanda: come sarà la primavera sui tetti di Montmartre?

Scripta volant

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Un blog mi sembrava un buon posto dentro cui nascondermi.

In quei giorni avevo voglia di tana e di penombra e la voce mi chiedeva parole che non sapevo dire.

Da cinque anni ormai scrivo in questo posto strano che considero mio, ma non lo è.

I pensieri, quelli sì che sono miei.

Poi li scrivo e non sono più miei.

Ora sono di chi li legge.

Li concedo ad occhi che non conosco, come messaggi dentro una bottiglia, e quando ricevo un commento o una mail so che qualcuno, in questo scampolo di web, ha raccolto la bottiglia.

E’ così che le parole continuano a parlare ancora.

Si staccano da me, escono dalle mie pagine, attraversano frontiere impalpabili e prendono vita dentro vite altrui.

Un’osmosi che esiste senza essere vista.

Scripta volant.

Perché, in fondo, certe parole se non le regali a qualcuno non valgono niente.

O forse perché il segreto, anche qui, sta nell’incontrare persone che abbiano una storia da raccontare.

E trovarci dentro domande, risposte, sogni e turbamenti.

In questa mezza decade di pagine e di inchiostro ho letto tante storie e scritto quasi duecento post.

Scrivo per tenere alla larga le sciocchezze, per reinventare il mondo, per capire se ho capito.

Così poi il pensiero rallenta ed io riprendo fiato.

Post brevi, lavorando di lima, di sega, di pialla.

Perché quando si scrive per sottrazione si smussano frasi, si assottigliano concetti, si toglie il superfluo e di tante parole se ne fanno poche.

Centinaia di visite al giorno, qualcuna inciampata da chissà dove.

Tipo oggi, uno cercava “fondoschiena donna formosa” ed è arrivato qui. Ci deve essere rimasto male.

E poi ci sono i commenti che a volte sono più belli dei post e li aspetto per sentire come la pensano gli altri sulle cose che mi frullano in testa.

Persone che passano, guardano e rispondono.

Non li conosco, ma ci sono. Entrano a casa mia e lasciano un segno.

E allora capisco che non è importante scrivere o leggere, l’importante è ciò che passa tra chi scrive e chi legge.

… è una danza. Noi che scriviamo, voi che leggete. Balliamo insieme?” (A. Baricco)

 

 

Sotto l’albero

Tra

un po’

tutto si ferma,

come una frenata

dopo una corsa veloce.

Lascio la mia casa per tornare

a casa mia, perché Natale è Natale

ovunque, ma in famiglia lo è un po’ di più.

Il crepitio del camino, l’odore dei mandarini, gli

occhi dei bambini che sanno qualcosa che i grandi hanno

dimenticato e poi chiacchiere, racconti, auguri, nuovi propositi

e vecchi ricordi impastati di burro, mandorle, noci e volti di chi non c’è più.

Le cose irrisolte avranno anche quest’anno il sapore di un viaggio ancora da fare

e le cose risolte quelle di una carezza affettuosa, che asciuga la fronte. Sotto l’albero

vorrei trovare i soliti dubbi e qualche certezza, ma non molte, tanto per iniziare il nuovo

anno con qualcosa in tasca. Come dice Rodari, non ho che affetto, parole e auguri da regalare

perciò,

a chi passa da qui Buone Feste, di cuore.

Quattro anni dopo

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Ascolto il pianoforte accarezzato da Ludovico Einaudi e guardo il sole che sta per andare a letto.

Si è messo un pigiama arancione e di là è apparsa la luna, ancora in vestaglia.

Io intanto scrivo in questo posto strano che sento mio, ma non lo è.

I pensieri, quelli sì che sono miei.

Poi li appoggio qui, qualcuno li legge e non sono più miei.

Perché niente come un blog somiglia ad una bottiglia con dentro i messaggi.

In questo guazzabuglio di appunti sparsi ci sono approdata quattro anni fa, come una migrante.

Qui ho conosciuto decine di persone, qualcuno è sparito, qualcun altro è diventato mio amico, c’è chi si è sposato e chi ha scritto un libro.

Ogni giorno, in modo silenzioso e discreto, ci sono e mi fanno compagnia.

E i loro pensieri mi danno da pensare e, talvolta, da scrivere.

Così anch’io, in un’impercettibile fuga dall’essere me, ogni tanto riverso qui fiotti di coscienza, desideri e turbamenti.

Accosto immagini secondo una logica tutta mia e scrivo post di poche righe che però, sommate, fanno una vita.

Questo blog voleva essere un pensatoio o uno sfogatoio, poi è diventato altro e non me ne sono accorta.

Sono cambiata e lui è cambiato con me.

Scrivere mi ha evitato l’analista, l’omicidio, il suicidio, l’ulcera e le bollicine sul viso.

E’ il mio blog, ed è com’è perché a me piace così.

Mi piace scrivere e leggere.

E farmi leggere?

Questo ancora non l’ho capito.

Eppure sono 140 i post pubblicati, 3.500 i commenti ricevuti, 28.000 i visitatori e 54.000 le visualizzazioni.

Cinquantaquattromila, cazzo.

Visite da tutte le parti del mondo: Brasile, Grecia, Tunisia, Finlandia, Israele, Kuwait, Nepal.

Forse sono italiani andati in vacanza in quei posti, altrimenti non si spiega.

E poi ce n’è uno, uno solo, che mi legge dal Paraguay e che tutti i giorni attraversa l’Atlantico e viene a trovarmi.

Non so perché, ma vedere quella bandierina che sventola sulla pagina delle statistiche, mi fa sorridere ogni volta.

Ah, quasi mi dimenticavo.

PindaricaMente è nato il 19 luglio 2013.

Fategli gli auguri, io intanto apro una bottiglia di prosecco.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Tutte le volte che sono nata

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La cattiva notizia è che il tempo vola.

Quella buona è che anch’io corro forte e ogni volta mi arrangio e qualcosa mi invento.

Oppure rinasco daccapo. Altrove e con altri sogni.

Oggi ho un anno in più, qualche probabilità in meno, le solite ombre che arrivano da chissà dove e dei regali da scartare.

La prima volta che sono nata mi sono ritrovata su questo pezzo di mondo sbilenco e sgangherato ad inventare regole ed eccezioni, a costruire argini con mattoncini colorati e ad immaginare il rumore del mare nelle notti in cui non riuscivo a dormire.

Ho vissuto di libri, di pagine da sfogliare e di storie appartenute a qualcun altro.

Poi, un giorno, mi sono chiusa a riccio e le spine sono rimaste tutte dentro.

La seconda volta che sono nata mi è stata regalata una scatola piena di dubbi.

Mi ci è voluto un po’ per capire che anche quello era un dono.

Sono andata avanti tra sottrazioni ed esclusioni e per apprezzare il buono, di tanto in tanto, ho dovuto inciampare nel cattivo.

Ho eliminato i saccenti, gli ipocriti e i falsi parlatori.

Ho buttato via le strette di mano mollicce, i film demenziali, i colori sgargianti, le scarpe lucide, i calcoli, le pretese e le perdite di fiato.

E ho smesso di contare il tempo in primavere perché, in fondo, ciò che conta non sono gli anni, ma come si passa il tempo fra un anno e l’altro.

Quando ho capito di non essere nata per stare sotto i riflettori, sono nata un’altra volta.

Perché il centro dell’attenzione mi imbarazza, perché non so fare tante cose, ma soprattutto non so fare finta.

Se arriva il mio momento, al massimo, sciolgo i capelli, li lascio cadere sulle spalle e sto.

Sorridendo di certi spettacoli di cui mai farò parte.

L’ultima volta che sono nata ho sbagliato epoca. O forse pianeta.

Questo tempo fatto di troppe grida e questo mondo incupito da troppe banalità, non mi somigliano.

Fosse stato per me, avrei fatto un viaggio con Cristoforo Colombo o partecipato ad un certame poetico con Lorenzo de’ Medici.

Oppure avrei giocato con la luce e le ombre insieme a Van Gogh.

La prossima volta che nasco, invece, voglio avere i capelli ricci e gli occhi verdi, crescere in una terra lontana dove capire meglio e di più e fare la restauratrice di affreschi.

Adesso, però, sono qui e qui c’è un sette-sette-duemiladiciassette da festeggiare.

Ci sono dei messaggi di auguri da leggere, dei regali da aprire e degli abbracci in cui sprofondare.

Che mi si porti, dunque, una torta e qualcosa da bere.

Ultima fermata

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Forse ci vogliono occhi stropicciati, un po’ di coraggio, un pezzo di cielo e una finestra aperta per affrontare giornate che iniziano tutte allo stesso modo e finiscono differenti.

Nel mezzo, cose solite e cose insolite.

Treni che passano una volta sola, sedili sporchi e binari che separano vite.

Quando si abita vicino a una stazione, niente è definitivo.

Si ha l’impressione di essere di passaggio, anche senza prendere alcun treno.

A ricordarmelo, da 8 anni, c’è il fischio lungo, ripetuto e listato a lutto dei treni in transito.

Perché oggi, qui a Viareggio, è l’anniversario di un dolore sordo e mai cancellato.

Il 29 giugno 2009 era un giorno qualunque.

Iniziato come sempre e finito differente.

Alle 23.48, tra le pieghe di un sonno incredulo, il rumore feroce di un botto.

Poi all’improvviso, sotto un cielo tinto di rosso, lingue di fuoco, case in fiamme, vetri in frantumi, fumo, grida, pianti.

Ed io che non riuscivo a capire.

I vicini di casa mi dicevano di scappare, di prendere la macchina ed allontanarmi.

Perché il cuore di Viareggio stava bruciando.

Bruciavano case, macchine, alberi, persone.

Bruciava via Ponchielli, i suoi abitanti e chi era passato da lì per caso, nel momento sbagliato.

Torce umane, come in un affollato girone dantesco.

Quella notte era deragliato un treno e, nell’urto, era fuoriuscito tutto il gpl che trasportava.

Un’esplosione, trentadue morti, trentatré indagati, ventitré condannati.

All’accusa di disastro ferroviario colposo, omicidio colposo plurimo, incendio colposo e lesioni personali colpose è seguita una pena irrisoria.

I manager di Ferrovie dello Stato se la sono cavati, in primo grado, con appena 7 anni.

Che forse non sconteranno mai perché, nel frattempo, hanno fatto carriera in posti di prestigio e ricevuto onorificenze varie.

Poi tutto finisce, tutto ricomincia com’è.

Fino a quando non ci sarà un’altra tragedia su cui affondare unghie e telecamere.

E allora si ripartirà con la solita tiritera del Paese che va in malora, degli strappi alle regole, della giustizia che si fa ingiustizia.

Con lo sdegno del primo giorno, il cordoglio del secondo e le lacrime da coccodrillo del terzo.

Al quarto, c’è già il passo rassegnato delle pecore spinte nella stalla.

Poi dicono che lo Stato siamo noi.

Ma noi chi? Io mi vergogno un po’.

 

Donne, mimose e tacchi alti

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Nascere donna, odiare le mimose ed amare i tacchi alti è troppo in una sola vita.

Ciò mi impone di stare sempre in secondo piano, perché se voglio stare al centro sono superficiale e vanitosa.

E talvolta posso dire la mia, ma un po’ scusandomi come se avessi torto per principio, o il torto fosse di avere un’opinione mia.

Se per caso poi mi capita di avere una qualunque idea, non posso difenderla con veemenza, perché sennò sono aggressiva.

E non posso nemmeno far notare che gli altri dicono cazzate, perché sennò sono saccente.

Difficile essere donna in un mondo infiocchettato di rosa e carino come una bomboniera, dove ci sono donne che, in quanto donne, pensano di essere migliori degli uomini.

Perché dotate, manco a dirlo, di una sensibilità maggiore e di un’umanità superiore.

Ed è difficile essere donna al cospetto di uomini che, in quanto uomini, sono convinti di sapere come vada il mondo e quindi di doverlo spiegare a me che sono donna.

Perchè è vero che per alcuni io sono una creatura meravigliosa, piena di qualità e intelligente.

Ma di quella intelligenza che mi consente al massimo di capire come si programma la lavatrice e non di fare l’ingegnere nucleare o il primario di cardiochirurgia.

Non mi piace, quindi, che ci sia una ricorrenza a sè per ribadire diritti che sono già sacrosanti.

Un solo giorno, ogni anno.

Fino a quando ci saranno donne sfruttate, violentate, infibulate, lapidate, ripudiate con l’acido in faccia, che ho da festeggiare?

Fintantoché, per lo stesso identico lavoro, sarò pagata meno di un uomo o tacciata di andare a letto col primo che capita per far carriera, che me ne faccio degli auguri e delle mimose?

Tanto il giorno dopo l’otto marzo tornerò ad essere la solita donna di sempre.

Quella costretta a fare a brandelli sogni e desideri e ad agganciarli a zavorre di compromessi, pregiudizi e luoghi comuni.

Il poco che resta è stropicciato.

Un rimasuglio di cuore e un frammento di testa.

Che io la sento ancora la solfa che le donne studiano perché hanno queste ambizioni assurde, tipo realizzarsi nel lavoro.

E che invece dovrebbero concentrarsi sulla famiglia, mettere al mondo figli da mandare a scuola con il grembiule sempre lindo ed essere remissive, comprensive, laboriose.

Allora mi piego alla rassegnazione e aspetto che qualcuno, un giorno, mi riconosca diritti non in quanto donna, ma in quanto persona.

Che parli di me senza farmi cascare troppo le braccia e con parole non più vestite di ipocrisia ed intrise di retorica.

Oggi, quindi, vanno bene gli auguri, i fiori, le rose, le mimose, gli scioperi, le feste con lo spogliarellista e persino gli otto giga in omaggio da Tim.

Io preferirei, però, mazzi di scarpe.

E tacchi alti come trampoli con cui camminare fiera verso un mondo che non dovrà più supplicare se stesso per ricordarsi che le donne sono creature degne di rispetto e portatrici di dignità.

Ogni giorno, a prescindere dalla data sul calendario.

Ma a chiunque pensi che oggi sia una festa, auguri.